Il Polittico Scarognino, in origine in Santa Maria delle Grazie a Varallo, nella cappella dell’Immacolata, oggi dedicata a Santa Margherita da Cortona, mostra la cultura più aggiornata disponibile in Valsesia sul finire del Quattrocento. Chi lo ha eseguito è forse Francesco Spanzotti, fratello del più noto Martino e già attivo nella Cappella di Santa Margherita a Crea su commissione del marchese di Monferrato Guglielmo VIII Paleologo. In basso a destra, inginocchiato e vestito in abiti da cerimonia, è ritratto il committente Marco Scarognino, probabile responsabile dell’arrivo a Varallo del francescano Bernardino Caimi, fondatore del Sacro Monte: il cantiere, avviato nel 1486, ha un impatto decisivo sul panorama artistico locale e apre le porte a una nuova modernità.

Il dipinto, come suggeriscono le dimensioni, era destinato alla devozione privata e giunge in antico al Sacro Monte di Varallo per poi confluire nelle collezioni del museo a fine Ottocento. Il Cristo è raffigurato come Uomo dei dolori, con il mantello di porpora, coronato di spine, con le mani incrociate davanti al petto e gli occhi aperti, secondo l’iconografia ricorrente in ambito germanico. La composizione, ritenuta quasi invenzione di Dieric Bouts (1415 circa – 1475), prevede a fianco del Cristo la Mater dolorosa, a comporre un dittico: l’incorniciatura dipinta che inquadra il Cristo, con due foglie d’acanto intrecciate e uno scudo poggiante su un’esile colonna, proseguiva certamente nel perduto pendant con la Vergine, la cui ombra permane accanto al fianco destro di Gesù. Il restauro della tavola ha chiarito la posteriorità dell’attuale cornice lignea, realizzata forse al momento dello smembramento del dittico originale.

Il gruppo ligneo della Pietra dell’Unzione proviene dal nucleo più antico del Sacro Monte di Varallo. La cappella che in origine ospitava le sculture faceva parte del progetto di imitazione dei Luoghi santi avviato dal francescano Bernardino Caimi e intendeva evocare il luogo, segnato da una pietra posta nella basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme, nel quale si faceva memoria dell’unzione del corpo di Cristo prima della sua sepoltura. Il gruppo, riferito alla bottega lombarda dei fratelli Giovanni Pietro e Giovanni Ambrogio De Donati (documentati tra il 1470 e il 1530 circa), tra le più attive nel ducato milanese sul finire del Quattrocento, è tra le fonti più importanti per il giovane Gaudenzio Ferrari, che lo assume come punto di riferimento nelle sue prime opere pittoriche, come la tavola con la Crocifissione, sempre nelle collezioni del museo. La profonda analisi psicologica dei personaggi, i quali esprimono muti un dramma interiore, è il prodotto di una cultura raffinata, che traduce le emozioni in volumi semplici e in gesti e sguardi sospesi. 

Questo mirabile Angelo annunciante è esposto nella terza sala della Pinacoteca. Insieme a un’altra tavola, oggi dispersa, con la Vergine annunciata, si trovava nella «Chiesa vecchia» al Sacro Monte di Varallo, demolita nel 1773. L’autore è Gaudenzio Ferrari (documentato dal 1507 – 1546), che la esegue con l’aiuto di un collaboratore, forse il novarese Sperindio Cagnoli, intorno al 1515. Il restauro recentissimo ha ridato vita ai colori e alla brillantezza originali del dipinto, ricco di dettagli: il pavimento a losanghe verdi e nere, il paesaggio in lontananza, la coroncina fiorita sul capo dell’Angelo e i preziosi decori vegetali in oro laminato sulle maniche della sua veste.

I pannelli istoriati, esposti oggi nella quinta sala della Pinacoteca, facevano parte di un’ancona smembrata raffigurante i Misteri del Rosario: gli episodi della vita di Cristo e della Vergine sono inseriti in riquadri rettangolari e ovali, contornati da motivi decorativi. Per qualità di intaglio e policromia e per freschezza narrativa, questi bassorilievi sono tra le testimonianze più significative della produzione lignea locale nella prima metà del Seicento. Per l’esecuzione di questi piccoli palcoscenici, quasi un Sacro Monte portatile, è stato proposto di recente il riferimento alla bottega dello scultore varallese Gaudenzio Bonino. Tra le sue opere documentate ci sono l’antica ancona del Rosario nella parrocchiale di Zuccaro a Valduggia (VC) e la carpenteria della pala con la Processione del Santo Chiodo dipinta da Tanzio da Varallo per la chiesa di San Lorenzo a Cellio (VC), eseguite entrambe nel 1628.

Da uno sfondo scuro indefinito, che lascia intravedere la preparazione bruna della tela, emerge la figura del giovane David, come una visione che si materializza. I suoi capelli sono mossi da una brezza leggera, le sue guance sono arrossate per la lotta appena conclusa con il gigante Golia. Al turbamento malinconico di David, il cui sguardo è sospeso in direzione di chi osserva, fa da contrappeso il crudo realismo della testa di Golia, alzata dal giovane pastore come un trofeo di battaglia. Rispetto all’altra versione conservata in museo, in questa tela è meno preponderante l’influenza della tradizione manierista lombarda e a dominare sono ancora le suggestioni caravaggesche del periodo romano-napoletano di Tanzio (1582 circa – 1633): la citazione del David del Merisi oggi alla Galleria Borghese di Roma, evidente soprattutto nel dettaglio della testa-ritratto di Golia, è solo la più vistosa delle matrici leggibili nel dipinto.

La tela giunge nelle collezioni del museo sul finire dell’Ottocento e ben presto ne diventa una sorta di icona. David ha appena decapitato il gigante Golia e si volge di scatto verso lo spettatore. Il dipinto coglie il momento di estrema tensione fisica e morale del giovane pastore: il braccio destro si abbassa, dopo aver sferrato il colpo di spada, quello sinistro, con i muscoli tesi e proteso in diagonale quasi fosse lui il protagonista dell’opera, sta per sollevare l’enorme testa del gigante. 

Il naturalismo dei dettagli, dalla pelliccia sulle spalle di David, alla sacca in rete con i sassi pesanti legata in vita, allo sfondo roccioso sulla sinistra, convive con il plasticismo evidente della figura: al referente caravaggesco si aggiunge quello del manierismo lombardo.

Questa natura morta fa parte di una serie di tre dipinti esposti negli spazi della Pinacoteca dedicati alle collezioni del Palazzo d’Adda di Varallo, residenza dell’omonima famiglia milanese di banchieri e mercanti presente in Valsesia da metà Cinquecento. L’autrice, Margherita Caffi (1648-1710), è figlia d’arte di Vincenzo Volò, noto come “Vincenzino dei fiori” per la straordinaria varietà delle sue composizioni botaniche. Margherita, che porta il cognome del marito, il pittore cremonese Ludovico Caffi, realizza il dipinto nei primi tempi del suo definitivo trasferimento a Milano (1685 circa), che la vede entrare a pieno titolo nella bottega di famiglia. Il 2 febbraio 1697 è ammessa all’Accademia milanese di San Luca insieme alla sorella Francesca e a Lucrezia Ferrari, come lei entrambe pittrici, prime e uniche donne a ottenere questo privilegio. 

La grande tela del pittore valsesiano Pier Celestino Gilardi (1837-1905), conosciuta con il titolo Il Renaiolo sul Po, è dipinta nel 1892, quando è esposta a Torino, al Castello del Valentino. Nell’immediato il dipinto non incontra grande successo e sulla stampa locale, sempre generosa di informazioni, non compaiono che pochi cenni su questa grande composizione e sulla novità del tema che affronta. Alla figura dell’uomo in primo piano, che con brutale fatica si sforza di sollevare il badile carico di rena dalle acque del fiume, fa da sfondo una fotografia della Torino di fine Ottocento, con i panni stesi dalle lavandaie lungo la sponda del Po e il tram a vapore che attraversa il ponte, in direzione della Gran Madre.

La grande tela, opera dell’emiliano Camillo Procaccini (1561-1629), appartiene alla collezione Remogna, donata a Palazzo dei Musei tra il 2002 e il 2013. Il dipinto risale agli anni in cui l’artista si sposta dall’Emilia a Milano grazie al suo primo mecenate lombardo, il conte Pirro I Visconti Borromeo, che lo sceglie per decorare la sua residenza fuori porta di Lainate. Non è dato a sapersi se l’opera sia quella descritta, nel 1587, dal trattatista Giovan Paolo Lomazzo in una terzina delle sue Rime, dove si racconta di un misterioso Sacrificio di Isacco dipinto da Procaccini per il suo protettore. Se così fosse, il dipinto oggi a Varallo sarebbe una sorta di biglietto da visita delle doti pittoriche del giovane artista, che in pochi anni si guadagna un ruolo di assoluto primo piano sulla scena milanese di fine Cinquecento. 

La piccola tela raffigura il momento in cui Francesco, sul monte Verna, attende la visione celeste di un angelo serafino sulla croce che anticipa l’evento miracoloso della ricezione delle stigmate. La scelta di rappresentare questo frangente di trepidazione offre al pittore l’occasione per sperimentare tutte le potenzialità simboliche e psicologiche del paesaggio: impervia e sublime, la natura è così potente da diventare la protagonista, dipinta con una gamma cromatica ridotta a poche sfumature di azzurro e grigio. Due figurine di frati sono in cammino verso il santuario che svetta sulla cima di un’altura, dopo aver attraversato un ponticello di fortuna, fatto di semplici assi in legno. Sul versante opposto, in lontananza, si intravedono alcuni edifici, circondati da uno scenario montuoso, memore forse dei paesaggi di origine del pittore di Alagna, ma anche dei monti abruzzesi attraversati e vissuti nel lungo soggiorno in queste terre lontane.

Il grande bacile, datato intorno al terzo quarto del XVI secolo, appartiene alla collezione Francesco Franchi donata a Palazzo dei Musei tra il 2004 e il 2007. Fa parte di un nucleo di esemplari di ‘bianchi di Faenza’ o ‘compendiari’, tipici della produzione faentina a partire dalla metà del Cinquecento e caratterizzati dall’utilizzo di due sole gamme cromatiche, del turchino e del giallo-arancio, per la decorazione delle maioliche, in contrasto con le policromie ridondanti dello stile istoriato. Sul bacile è raffigurato l’episodio biblico di Abigaille che offre doni a re David: la donna è genuflessa in atto di baciare la mano a quest’ultimo, mentre le sue ancelle portano i doni. Il soggetto è ripreso da un bulino della scuola di Marcantonio Raimondi le cui dimensioni corrispondono al diametro del piatto, facendo così ipotizzare che per la decorazione della maiolica si sia ricavato uno spolvero integrale della composizione figurativa.

Il piatto, dipinto a piena policromia, illustra la storia di Dedalo e Icaro raccontata nelle Metamorfosi di Ovidio e fa parte di un nucleo di maioliche istoriate, così chiamate per il loro gusto narrativo.

In alto, padre e figlio conquistano il cielo grazie alle ali costruite con piume e cera; in basso, Dedalo soccorre Icaro dopo la sua caduta, avvenuta per essersi avvicinato troppo al sole. Una metafora senza tempo che ricorda come non si possano sfidare i limiti della propria natura. 

Sul verso del manufatto è dipinta la data di esecuzione, il 1542. 

Questa grande alzata è interamente decorata con raffigurazioni orientali distribuite su tre piani: dall’alto verso il basso, compaiono un’isola rocciosa con una piccola barca e una giunca abitate da personaggi, una cerimonia ufficiale nella quale un prigioniero è presentato a un sovrano, forse un Imperatore, seduto in trono sotto un baldacchino, e un personaggio con un tipico ombrellino orientale ritratto nei pressi di un edificio. Decori fioriti, uccelli e piccoli insetti circondano i soggetti descritti. Il piatto, che risente della diffusione, nell’Europa del Settecento, del gusto per le chinoiserie, è riferito alla manifattura di Giorgio Giacinto Rossetti, che produsse con successo questa tipologia di decori a Torino, nei primi anni Quaranta del XVIII secolo. 

Il vaso, di dimensioni importanti, è tra i pezzi più prestigiosi della collezione Francesco Franchi. È attribuito a Carlo Antonio Grue (1655-1723), il principale artefice della maiolica barocca in Italia. Sul corpo del manufatto sono illustrati gli episodi biblici di Giosuè che ferma il Sole e della Conversione di Saulo: la gestualità marcata e la resa attenta dei panneggi conferiscono vitalità alle figure, in parte desunte dai repertori incisori in circolazione. L’eleganza dello stile pittorico di Grue si coglie inoltre nelle raffinate lumeggiature in oro, frutto di un’elevata perizia tecnica. 

Nella raccolta varallese è presente un altro vaso di tipologia simile, decorato con scene tratte dalla vita di Cristo.