Il manufatto fa parte della sezione egizia delle collezioni archeologiche del Museo Calderini. Statuetta di squisita fattura, apparteneva al corredo funerario di un individuo di nome Horemheb: il nome è recato sulla prima riga dell’iscrizione, e richiama quello dell’omonimo sovrano della XVIII dinastia. Stilisticamente ascrivibile al periodo saitico (XXVI dinastia), questo ushabty è caratterizzato da un modellato particolarmente slanciato e allungato, ben visibile nella realizzazione del corpo, della parrucca, delle orecchie e della barba. Un’ulteriore caratteristica è la resa della parte parte posteriore della parrucca che poggia sul sottile pilastrino dorsale Un altro ushabty dello stesso personaggio, molto simile a quello della collezione calderiniana, si trova al Museo Egizio del Cairo.

Del nucleo di suppellettili facenti parte la raccolta egizia del Museo Calderini, sono rappresentativi un consistente numero di manufatti in legno, tra i quali è identificabile un coperchio di vaso canopo a testa umana. Il coperchio, eseguito in legno stuccato e dipinto, ritrae il genio funerario Amset, protettore del fegato. Il volto, dall’incarnato rosso, è illuminato da due grandi occhi dipinti di bianco, con iride e contorno neri. La parrucca, liscia e avvolgente, reca residui di pigmenti azzurri.

In collezione è presente un altro manufatto di questa tipologia che mostra le sembianze di Qebehsenuef, il genio protettore degli intestini, rappresentato dal falco. 

Sul frammento di cartonnage, probabilmente derivante da una copertura di mummia, è rappresentato il Dio Anubi nella sua forma animale: un canide accovacciato sopra a un santuario, con un nastro cerimoniale rosso intorno al collo, le zampe anteriori distese davanti a lui e la coda che ricade dritta. Il colore scuro del manto è un chiaro riferimento alla morte, ma anche alla fertilità della terra d’Egitto, quindi simbolo di rinascita per il defunto. La figura di Anubi era ampiamente riprodotta in ambito funerario e il suo culto era diffuso in tutto il territorio egizio: dio delle necropoli, era il preposto al rituale della mummificazione ed era considerato una delle divinità funerarie più importanti del pantheon egizio.  

Il manufatto fa parte di un nucleo più ampio, composto da sedici statuette realizzate in argilla e tessuto, molto omogenee per dimensioni, fattura e stile, e che sembrerebbe rappresentare un insieme di suonatori e danzatori accompagnati da portatori di fiaccole e di palanchino. I tratti somatici riprodotti, per la gran parte dravidici, sono riferibili all’area meridionale dell’India. Tale appartenenza geografica è confermata dal tipo di vestiario indossato. La produzione di tale tipo di manufatto, in voga nel XIX secolo nella zona di Krishnagar nel Bengala occidentale, era affidata a comunità di vasai, e veniva realizzata sia per finalità religiose sia come giocattoli e oggetti per la casa. Oltra all’argilla cotta, gli artigiani del Bengala utilizzavano spesso juta, metallo, legno e foglie di palma.

Dopo più di un secolo dalla scomparsa della specie Canis lupus dai territori della Valsesia, nel dicembre 2017 sono state ritrovate le spoglie di un esemplare di questa in dispersione, proveniente dal branco dal branco recentemente insediatosi a cavallo tra la Val Sessera e la Val Sesia. I preparati tassidermico e osteologico sono stati affidati in custodia al Museo Calderini ed entrati quindi a far parte della collezione zoologica nel gennaio 2018. 

Il preparato entra a far parte della collezione zoologica del Museo Calderini nel 1875, citato negli inventari come ‘zampa dell’ultimo orso vedutosi in Valsesia ed ucciso nel 1774 nei monti fra Alagna e Riva Valdobbia’. Questo reperto, che nella sua singolarità rappresenta una testimonianza scientifica, è oggetto di una leggenda popolare che ancora oggi viene ricordata: pare infatti che la zampa dell’orso, prima di essere donata ed esposta nelle sale del Museo, fosse messo in bella vista sul colmo della casa di coloro che ne provvidero la cattura e l’uccisione. La zampa dell’orso di Otro, attestato come ultimo esemplare della specie rinvenuto in Valsesia, risulta essere il più antico reperto tassidermizzato della collezione zoologica del Museo.

È del dicembre del 1934 l’arrivo di una delle collezioni del Museo Calderini più conosciute e più apprezzate, sia dal punto di vista estetico sia soprattutto dal punto di vista scientifico: la collezione entomologica del dottor Roberto Haas, dedicata esclusivamente all’ordine dei Coleotteri e composta da quasi 30000 esemplari, raggruppati in 150 scatole. Scarse sono le notizie relative all’autore della raccolta: germanico di nascita, il dottor Haas, prima del suo trasferimento in Brasile al termine della Prima Guerra Mondiale, fu ospite a Ginevra presso un amico valsesiano e lasciò a questi la suddetta raccolta entomologica, che entrò quindi a far parte delle collezioni calderiniane quando ormai i contatti tra i due vennero a mancare. L’ultima riorganizzazione scientifica della collezione, con catalogazione e rideterminazione degli esemplari, risale agli anni sessanta del Novecento ed è stata compiuta in collaborazione con il Museo Civico di Storia Naturale di Milano.

 E' del 2004 l’arrivo in museo, a opera dei famigliari, della collezione entomologica di lepidotteri di Pier Giovanni Caron (1911-1999), nato a Vercelli ma originario della città di Gattinara (VC). Avvocato di professione ma entomologo per passione, Caron allestì la propria collezione raccogliendo, e altre volte acquistando, esemplari provenienti per la maggior parte da Paesi esteri. La collezione, già esposta parzialmente nella mostra celebrativa del 2006, allestita in occasione del centenario della morte di Don Calderini, a partire dal 2010 è stata riordinata, con conseguente quantificazione del materiale da essa costituta: 545 esemplari organizzati in 35 scatole.

La sezione botanica del Museo Calderini è per lo più rappresentata dalle raccolte del botanico valsesiano Antonio Carestia (1825-1908), tra i più grandi studiosi di flora valsesiana nonché botanico riconosciuto a livello internazionale. L’abate Carestia consegnò parte dell’erbario da lui creato nel maggio del 1870, continuando negli anni seguenti a incrementare la raccolta di fanerogame da lui allestita con ulteriori esemplari, aggiungendo inoltre anche raccolte di crittogame, alghe e licheni. 

La recente catalogazione e digitalizzazione delle cartelle e dei fogli d’erbario che costituiscono l’opera dell’abate valsesiano, accompagnata da una revisione critica degli esemplari, ha comportato una migliore precisazione delle originarie determinazioni e una quantificazione dei campioni musealizzati: l’erbario di proprietà dell’istituzione naturalistica risulta così composto da 1050 tra fogli e pacchetti, con 1427 specie rappresentate e per un totale di 1995 esemplari.