A partire dal 2010, Rachele Bianchi torna alla pittura, e lo fa in un modo decisamente peculiare: fotografa i dettagli di un suo personaggio in bronzo – le mani, i piedi, i capelli e il viso, dettagli della veste – le stampa su carta e sovra dipinge a tempera una sorta di commento grafico alla sua stessa scultura.

Nel 2014 l’artista produce una serie di dipinti astratti su tela, quasi tutti Senza Titolo: composizioni in cui si mescolano geometrie e raffigurazioni di sapore infantile, realizzate con colori pieni e sgargianti; alcune rivelano, nella pennellata, nella composizione, nella scelta dei colori, dei chiari riferimenti alla storia dell’arte, alle indagini visive degli astrattisti francesi e russi del Novecento. Si tratta dell’ultima produzione di Rachele Bianchi che continuerà a disegnare quotidianamente soprattutto con pastelli a cera, matita e gessetto.

Gli anni Sessanta sono quelli in cui l’artista, forte delle prime sperimentazioni in terracotta, comincia a realizzare piccole sculture in gesso che successivamente fonde in bronzo: si tratta di opere caratterizzate da forme lisce e arrotondate, e in cui ricorre prepotente il tema della femminilità e della maternità. Del resto sono gli anni in cui l’artista mette al mondo i suoi figli - Augusta nel 1960 e Giuseppe nel 1966 - ed è comprensibile che questo lasci tracce evidenti nella sua produzione.

Quest’opera intende chiudere idealmente uno dei possibili percorsi espositivi.
Rachele realizza questa composizione cinetica al principio del nuovo millennio e, attraverso i suoi due fantasmi che la guidavano, racconta per la prima volta la sua idea di “oltre”. Si tratta anche dell’unico personaggio femminile la cui espressione pare trasmettere gioia e appagamento. La donna è al contempo guidata e sorretta ma, in ogni caso, soddisfatta del cammino compiuto.

Tra le più efficaci e simboliche rappresentazioni di maternità di Rachele quest’opera anticipa molti temi in cui si troverà coinvolta direttamente l’artista negli anni Sessanta.
Siamo all’antitesi dell’opera in bronzo che ha aperto il percorso espositivo. Qui il corpo della madre si compone di un unico blocco che si apre in una cavità che accoglie il bambino: due piccoli monoliti preziosi e silenziosi, che emanano il mistero e lo stupore dell’esperienza della maternità: unica per il femmineo, stravolto dal fenomenico.

Colpisce lo slancio della rappresentazione. Le braccia hanno un ruolo primario nella comprensione del messaggio scultoreo: queste si elevano con regolarità oltre la figura come a volerla innalzare.

Si tratta di un'opera molto importante nel percorso dell'artista perché è l'ultima natività di Rachele Bianchi. Un bel rilievo in gesso patinato poi ripreso e realizzato in marmo nel 1994.

Il suo stile si indurisce, le pieghe delle vesti si fanno rigide e simili a lame, ma emergono dettagli anatomici – braccia che reggono mantelli, gambe ben piantate nel terreno - che prima restavano nascosti. Questo è evidente in lavori come La donna rosa (1980 c.a)

Quest’opera suscita, forse più di altre, domande sulla donna raffigurata. Sulla lavorazione tubolare in bronzo si avvolge una sorta di labirintico filo di Arianna. Sono vortici interiori che fanno evolvere e sconvolgono le figure femminili.
Quale intreccio accompagna la donna alle soglie del nuovo millennio? Il suo intento è di mostrare, proteggere o rassegnarsi? Non è un caso che il modello di quest’opera sia stato replicato altre volte dall’artista, anche in forma monumentale, con il nome di Grande Simbiosi (ora esposta presso la Casa di cura Columbus di Milano e presso l’Istituto Italiano di Cultura di Atene).

Gli anni Cinquanta sono caratterizzati da una ricchissima produzione grafica. Si tratta soprattutto di nudi femminili ritratti in varie pose, che l’artista racconta di aver realizzato dal vero, dividendo la modella con una amica pittrice. Raramente si tratta di veri ritratti: i volti di queste donne nella maggior parte dei casi, sono solo accennati, ovali vuoti, se non addirittura tagliati dal bordo del foglio. Qui donna, senza volto e senza veli, seduta con le mani incrociate tra le cosce.