L'episodio raffigurato è tratto dal libro della Genesi - Storie di Giuseppe. L'ebreo Giuseppe, figlio di Giacobbe e Rachele, dopo aver patito la prigionia, viene scarcerato in virtù della sua capacità di interpretare i sogni del faraone d'Egitto. Nominato ministro fu inviato a compiere una vasta ricognizione dei prodotti cereali destinati all'alimentazione esistenti nel paese in vista della carestia da lui stesso preannunciata. Il dipinto mostra la partenza di Giuseppe che indossa un vestito di bisso (stoffa di lino finissimo) ed è seduto su una splendida quadriga dorata trainata da focosi cavalli bianchi; lo precede un giovane suonatore di flauto. In secondo piano si vede la carovana d'accompagnatori cui si mescolano fanciulle danzanti al suono di tamburelli. Sullo sfondo un Egitto di fantasia, evocato dalla memoria, o meglio trasferendo in immagine l'idea convenzionale dell'antico dove figurano i regolamentari banani, ma anche templi romani, archi, piramidi in una visione arruffata e pittoresca dell'antico che è propria dell’epoca. E' il trionfo della favola a lieto fine, la festa del colore e il tripudio della pittura. I colori evanescenti, quasi da arazzo (celeste polvere, verdino, avorio, grigiastro), rialzati qua e là da brani di rosso, rendono il dipinto, così lieve e prezioso da sembrare "soffiato" come un vetro di Murano.

Il piccolo dipinto esibisce un Abbati molto immediato e corsivo, che con rapide pennellate costruisce la figura di una contadinella con grembiule e cappellaccio, in posa con un fascio d’erba tra le mani accanto ad un grande orcio di terracotta e a un barilotto. La pennellata magra, quasi strofinata sulla tavola, sfrutta la cromia e le venature di quest’ultima nel volto e nel muro di pietra e mattoni del fondo. La datazione del dipinto oscilla tra il 1859 e il 1865.

La tavola si trovava in origine nella cappella dello stesso titolo nella chiesa domenicana di Santa Maria la Nova a Monopoli - cittadina pugliese sulla costa adriatica, che fu amministrata direttamente dalla Repubblica di Venezia tra il 1495 e il 1530 -, donde fu successivamente trasferita nella chiesa di San Domenico, sorta sulla stessa area a partire dal 1530. Contrariamente a quan­to riferito sinora, il patronato della cappella di San Pietro Martire, che sappia­mo contigua a quella di San Girolamo e Santo Stefano (Archivio Unico Dio­cesano di Monopoli, Selva d'oro E. 495) non apparteneva alla famiglia Indelli - che deteneva invece quello della cappella di San Domenico, da cui provie­ne il dipinto di Jacopo Palma il Giovane raffigurante San Domenico con Santa Caterina d'Alessandria, Santa Marta e Santa Maria Maddalena, erroneamente indicato come San Domenico Soriano (GLIANES, 1643, p. 48; n. ed. 1994, p. 80; INDELLI Ms 1779, cap. XIV, 56, ed. 2000, p. 439), ora nel Museo Diocesano di Monopoli - ma a famiglia ancora non identificata. Nel 1870, a seguito della soppressione dei conventi, il dipinto del Bellini passò nel locale Municipio e di qui, allo scopo di assicurarne la conservazione, presso il Museo Provinciale di Bari, dove risulta presente già intorno alla fine degli anni Venti del Novecento, e successivamente in Pinacoteca. Nel 1948 il dipinto fu restaurato a cura dell'Istituto Centrale del Restauro di Roma. In tale occasione, data la presenza dei disegni sul retro, in parte sovrapposti alle cambre a farfalla che uniscono le due assi verticali di cui è formata la tavola, si rinunciò a ridurne l'imbarcatura, peraltro poco accen­tuata. Attualmente, si nota una leggera fenditura longitudinale in corrispon­denza della congiunzione delle assi e la vernice protettiva risulta notevol­mente ossidata. La monumentale figura di San Pietro martire, dal volto barbuto lievemen­te reclinato verso destra, si staglia in piedi su un nitido sfondo rappresen­tato dal piano di posa e dal retrostante parapetto, entrambi in breccia di Verona (chiara allusione alla città d'origine del santo) di un caldissimo color salmone, e dal cielo azzurro fondo su cui sembrano transitare molle­mente due registri di morbidi cirri biancastri. Una luce meridiana, calda e naturale, illumina la scena, dando risalto, in un sapientissimo gioco di tra­passi cromatici, alla resa delle ombre (quella della figura del santo proiet­tata sul piano di posa e quella del manto nero sullo scapolare bianco del­l'abito da domenicano). Particolarmente realistica la resa della roncola e del pugnale infissi nella testa e nel petto del santo, in cui abili lumeggiature restituiscono il luccichio del metallo, e la splendida rilegatura in cuoio rossastro, decorata da cande­labre a rilievo e medaglioni, del libro mostrato con la destra.

Fu acquistato nel 1936, direttamente dall'artista, che allora viveva a Milano, dove si era imposto come tardo esponente dell'impressionismo lombardo aven­do studiato all'Accademia di Brera con Vespasiano Bignami e Cesare Tallone. Di buona fattura e di una spiritosa messinscena - molto raffinata anche la gamma dei neri - il dipinto sembra essere un ritratto di una soubrette o di una donna in atteggiamento da femme fatale. La tela risale, senza dubbio, agli anni della matu­rità di Amisani quando fu un ricercato ritrattista dell'alta società milanese.

Si tratta di una scena di genere di gusto settecentesco, tipica della produzione dell' artista spagnolo che dopo gli studi all' Accademia di Belle Arti di Madrid aveva frequentato l'atelier di Jean-Leon Gerome a Parigi. Ambientata in un elegante interno, all'immagine non manca nessuno dei motivi abitualmente ricorrenti in questo genere di pittura; si noti anche il quadro sullo sfondo, una scena galante sistemata nell' alcova, che rinforza il racconto in primo piano.

Si tratta di una variazione del tema della tela Montagne che ha accompagnato l'artista per alcuni decenni della sua attività. In una dichiarazione molto signi­ficativa, Sironi commenta questo suo paesaggismo, che tale non fu mai nel senso convenzionale: "Mi è stato rimproverato di non occqparmi di campi col­tivati, pittoresco da giardino, da valle, da collina, casette sul mare e simili stupi­daggini - ma di vedere soltanto rocce deserte, altitudini desolate dove l'uomo si misura con la vastità dello spirito. Ebbene molti vengono a Cortina e dovreb­bero aver visto una notte di luna piena e serena sull'immensa vallata, dove come troni d'argento e di vetro le vette nevose ascoltano la voce di Dio nell'immen­so spazio. Hanno visto e non hanno capito. La casetta e un quartuccio di mare del pittore di telette sono qui rapportati alle vette della Croda Nera del Sorapis e del Antelao slilla piattaforma della Terra"

Ricevuto in sottoconsegna nel 1929 dalla Pinacoteca del Museo Naziona­le di Napoli, questo piccolo ritratto di donna proviene in antico dalle rac­colte parmensi dei Sanseverino e quindi dei Farnese. Il numero 789 iscrit­to due volte sul retro - l'una a vernice nera, e l'altra a ceralacca rossa ­consente infatti di identificarlo senza sforzo nel "Ritratto di donna giovi­ne vestita di nero all'anticha con trinetina d'argento con frappe, e croce di gioie, che li pende davanti, in capo un ornato di gioie e penna bianca, di Mano Fiamenga n. 789" descritto al n. 741 dell'inventario della resi­denza farnesiana del Giardino a Parma e lì esposto, assieme ad altri ritrat­ti e a soggetti religiosi, nella "Prima Camera dell'Appartamento delle Dame di Modona" (cfr. BERTINI, 1987, p. 265). D'altro canto il sigillo notarile tracciato a penna sullo stesso retro della tavoletta e le firme appunto del notaio, Francesco Moreschi, e del consegnatario Grandini, nonché il numero 27 in nero appena leggibile, consentono di poter stabi­lire che i Farnese erano entrati in possesso del quadretto nel 1612 e in occasione del sequestro dei beni ai feudatari ribelli, fra i quali spiccavano i Sanseverino, nel cui palazzo di Parma, al n. 27 dell'inventario redatto proprio dal notaio Moreschi e dal Grandini, era per l'appunto "un altro retratto di una dama alla spagnola dipinto sopra l'assa di noce con [...] un cappello in testa, con dentro molte gioie, signato sigillato et sottoscritto" dai delegati a quel sequestro (cfr. BERTINI, 1977, p. 38).

Inviato in deposito dal Museo Nazionale di Napoli alla Pinacoteca Pro­vinciale di Bari nel settembre del 1929, questo notevole dipinto fa parte di un gruppo di sei tele che - come già segnalò De Rinaldis (1911, pp. 523,646; 1928, p. 318) - vennero donate nel 1807 dai monaci del locale convento di Sant'Efremo Nuovo a Giuseppe Bonaparte per la costituen­da Galleria dei pittori napoletani (SPINAZZOLA, 1899, p. 46; FILANGIERI DI CANDIDA, 1902, pp. 240, 331 nota 98). Nonostante l'autorevole opi­nione del Nicolson (1977), poi ripresa da Tecce in cat. Londra 1982 - che sollevava dubbi sull'origine di questa serie alla luce delle differenze di soggetto con le tele effettivamente descritte in Sant'Efremo dal Sigismon­do (1788-1789) e dal Chiarini (1856-60), la lista di donativo del 1807 e le indicazioni di provenienza poste dall'Arditi a corredo dell'inventario del Real Museo Borbonico del 1821 non consentono infatti alcuna perplessi­tà sul fatto che il San Pietro liberato - così come la Sacra Famiglia, il Cri­sto in Emmaus, il Profeta Geremia e la Cattura di Cristo oggi conservati nel Museo di Capodimonte e l'Adorazione dei pastori ora in sottoconse­gna al Palazzo Reale di Napoli - facesse parte di quel gruppo di "molti dipinti ad attioni di notte, stimati opera di Matteo Tomar" citati dal Cela­no (1692) proprio in Sant'Efremo Nuovo ed in seguito altamente elogia­ti anche dal de' Dominici (1742-45). Nell'assenza di documenti o di altre provenienze certe ab antiquo, il nucleo di Sant'Efremo costituisce l'asse più saldo per la ricostruzione dell'ancor nebuloso soggiorno napoletano dello Stom, collocabile negli anni stretti fra le notizie romane del 1630-1632 e la prima opera datata dal pittore in Sici­lia, il Sant'Isidoro di Caccamo (1641). Diversamente che non nella più tarda produzione siciliana, caratterizzata da una maggiore monumentalità e com­plessità compositiva, il San Pietro liberato e gli altri dipinti prodotti presu­mibilmente a Napoli tradiscono un rigore di matrice ancora caravaggesca e un caldo luminismo ispirato alle soluzioni "notturne" del proclamato mae­stro fiammingo dello Stom, Gerrit von Hontorst. Il San Pietro in particola­re, col suo accordo parco ma spettacolare di bianchi, di rossi, di bruni dora­ti, ne risulta uno degli esempi in assoluto più significativi.

Il dipinto raffigura, attraverso una composizione studiata nel progressivo sfoltirsi delle figure verso l'alto, l'apparizione dell’Eterno Padre ad un nutrito gruppo di appestati in cui si distingue, in primo piano, sul lato destro, San Rocco, che intercede a favore delle vittime della peste. Il Santo, che viaggiò per tutta l'Europa dedicandosi alla cura degli appestati, è infatti invocato contro le pestilenze. Probabilmente il dipinto è un ex voto fatto eseguire dai committenti, gli Effrem, forse scampati fortunosamente al morbo. Il dipinto, opera autografa dell’artista, è stato spesso considerato opera di bottega o frutto della collaborazione del Tintoretto col figlio Domenico, o con Leonardo Corona, o con Jacopo Palma il giovane, a motivo delle differenze qualitative e stilistiche tra la parte superiore e quella inferiore; quest'ultima, infatti, risulta cromaticamente più sorda rispetto alla luminosità caratteristica del Tintoretto, che ben si nota invece nella parte superiore. Ma, grazie ad un recente restauro condotto molto sapientemente, è proprio nel registro inferiore che emerge con maggiore chiarezza la squisitezza del colore. Un colore dato talvolta con sprezzanti, energiche pennellate che disegnano le creste dei panneggi, in altri casi quasi “strisciato” sulla tela, come a pulire il pennello. La data 1595, che non ha alcuna relazione con quella dell'esecuzione del dipinto, potrebbe essere stata apposta in epoca antica, probabilmente quando l'opera è stata “ripresa in carico” da parte del Capitolo della Cattedrale di Bari.

Il gesso, opera unica, fu acquistato nel 1941 dalla Confederazione Fascista Professionista e Artisti, con il titolo Il prigioniero.
Esposta alla III Biennale romana del 1925 , fu notata come una scultura di notevole qualità, eseguita da un giovane artista pugliese del quale "è lecito presagire un lieto avvenire" (LANCELLOTT1, 1926, p. 96). Nell'opera, eseguita nei primi anni romani dell'artista, dopo un periodo di crisi e di solitudine, quasi "come
materializzazione del suo stesso sentimento di sconfitto" (VINNUTELLI, 1925, p. 134), confluiscono influenze e suggerimenti di natura diversissima, che vanno dall'arte greco-romana all'opera di Michelangelo e alle sculture di Adolfo Wildt. Dell'antichità furono determinanti, con ogni probabilità, i gruppi di figure dei frontoni del tempio di Zeus a Olympia e il Torso del Belvedere, mentre delle sculture di Michelangelo vanno menzionate le tombe dei Medici nella Sagrestia Nuova a San Lorenzo a Firenze. Dei lavori di Wildt, che avevano impressionato Martinez, si ricordino il torso acefalo Il crociato, del 1906 (bronzo disperso; il gesso si trova a Ca' Pesaro, Galleria Internazionale d'Arte Moderna, Venezia), il marmo Vir temporis acti, 1911 (disperso), che propone un torso molto simile, e in generale il concetto e il trattamento del viso, emaciato e levigato, interpretato come una maschera del dolore. E su una maschera, di incerto significato - forse si tratta di un richiamo del tema generale del dolore - si appoggiano le mani del Vinto, incrociate dietro la schiena.
L'introduzione dello stilema del torso si era resa necessaria dal momento che solo così, con il taglio delle gambe all'altezza delle ginocchia, la figura poteva giungere a quella forma chiusa, tondeggiante, voluta dall'artista.

L'icona, restaurata dal Colarieti Tosti nel 1919, unitamente alla Santa Margherita (cat., Pittura pugliese, 4) e alla Madonna con Bambino (cat., Pittura pugliese, 8) proviene dalla chiesetta gentilizia di Santa Margherita a Bisceglie, fondata nel 1197 da Falco, della nobile famiglia Falcone. Passata in seguito, insieme alla chiesa, in proprietà dei Sifola, dei Frisari e infine dei conti Berarducci, è stata acquistata nel 1964 dalla Provincia di Bari e destinata alla Pinacoteca, che ne ha promosso il restauro, curato dall'allora Soprintendenza ai Monumenti e alle Gallerie della Puglia, avvenuto nel 1967. Il supporto, insolitamente sottile o forse assottigliato sul retro con una rudimentale sgorbiatura, presenta sul recto una zona centrale ribassata rispetto ad una larga fascia che la circonda come una cornice. Un listello dal profilo 1 a gola, di cui resta un tratto sul margine destro, era applicato all'intero margine esterno. La rimozione, nel 1967, della pesante patina antichizzante risalente all'intervento del Colarieti Tosti ha restituito all'immagine la sua veste cromatica e riportato in luce ampie zone sino allora nascoste dalle stuccature; ma ha contemporaneamente evidenziato i danni irreparabili subiti dal dipinto. Una vistosa lacuna separa l'immagine centrale dalla cornice laterale sinistra, in corrispondenza della giunzione delle tavole, mentre le scene della fascia inferiore sono fortemente lacunose. Altre cadute di colore interessano il margine superiore, in corrispondenza delle prime quattro scene del ciclo. Nel campo centrale l'oro di fondo, quasi completamente caduto, è sostituito da una campitura di colore giallastro che umilia la preziosità della tavola. In migliori condizioni i fondi delle scene, dove sono ancora rilevabili ampie tracce dell'oro originario sul quale campeggiano, allo stato frammentario, iscrizioni latine tracciate in rosso. La parte centrale accoglie la figura olosoma del santo, in posizione frontale, rivestito degli abiti vescovili con omophorion crocesignato ricadente sul davanti. Con la mano destra benedice alla greca mentre regge nella sinistra velata il volume dei Vangeli. Ai lati della testa canuta e cinta da un nimbo, ridotto ad un semplice disco ormai privo dell'originaria doratura, spiccano le piccole figure del Cristo e della Vergine che porgono l'una il libro, l'altra l'omophorion, insegne tolte al santo, secondo la tradizione leggendaria, a seguito di sue colleriche intemperanze nei confronti di Ario durante il Concilio di Nicea. Sull'alta fascia rilevata che forma la cornice si dispongono le scene della vita e dei miracoli secondo un ordine di lettura da sinistra a destra, per registri (anziché secondo una lettura continua delle quattro bande, come negli esempi bizantini) e con una particolare ricerca delle rispondenze ritmiche tra le coppie di scene cui è affidata la rappresentazione dei vari episodi.

La tavola, insieme alla gemella con San Nicola (Cat.II. 3 ) e alla Madonna con Bambino (Cat. II. 9), proviene dalla chiesetta gentilizia di Santa Margherita di Bisceglie, della nobile famiglia Falcone, nella quale è ricordata, ma non sull’altare, sino agli anni Venti del Novecento. Passata con la chiesa ai Sifola, ai Frisari e infine ai conti Berarducci, fu acquistata nel 1963 dalla Provincia di Bari per la Pinacoteca, che ne promosse. Mai sottoposta a un restauro integrale ma solo ad interventi conservativi e di leggera pulitura, ha subito danni irreparabili soprattutto nella parte inferiore, dove il colore è caduto mettendo a nudo l’imprimitura o a tratti il supporto, e lungo il margine laterale sinistro, fortemente lacunoso. Vistose lesioni la attraversano in senso longitudinale in corrispondenza delle giunzioni delle tre tavole di cui è costituita, fermate solo da due rozze traverse inchiodate sul retro. Il fondo oro si presenta lacunoso e integrato in più punti. Sul piano iconografico la tavola si apparenta strettamente a quella di San Nicola, della quale è stata considerata alternativamente modello o derivazione. Qui ci limiteremo a considerarle gemelle, respingendo però l’ipotesi che in origine formassero un dittico. Analoga è l’impostazione, con la figura olosoma della Santa, rigidamente frontale, ribassato rispetto all’alto bordo che funge da cornice. La posizione di orante conferisce il massimo risalto all’abbigliamento principesco: un mantello rosso con fodera verde reseda impreziosita da un motivo a reticolo diagonale, fermato al collo da una spilla e bordato di due file di piccole perle, che le braccia aperte e sollevate aprono in due anse su una tunica azzurra vigorosamente lumeggiata di bianco arricchita da una stola gemmata; dall’orlo della veste escono le punte delle scarpe rosse; la testa è racchiusa in una cuffia blu scuro; i tratti del volto sono decisamente marcati e rilevati plasticamente da forti pennellate, senza sottigliezze di trapassi. A differenza che nel San Nicola, il nimbo, molto ampio, è rilevato dal fondo. Mancano le scritte esplicative delle scene, che si dispongono lungo l’alto bordo rilevato che funge da cornice. La vicenda di Marina, vergine e martire antiochena, divenuta Margherita nella traduzione latina della Passio, si snoda in ordine cronologico con un andamento di lettura per registri, da sinistra a destra, dall’alto verso il basso.

Il trittico sopravvissuto mostra, nello scomparto centrale, la Vergine giovinetta seduta su uno stretto trono ligneo dalla spalliera concava, con indosso una veste color rosa antico e un manto blu foderato di verde, e un velo bianco sul capo, mentre, con lo sguardo pudicamente abbassato, regge sul grembo un muscoloso Bambino in piedi, con i fianchi cinti da un perizoma trasparente. Negli scomparti laterali, sono raffigurati San Benedetto e Santa Scolastica ritti su piedistalli circolari marmorei. Il restauro del 1996-1997 ha rivelato che il pastorale, realizzato a disegno e privo di inserti di pastiglia, che oggi identifica San Benedetto, è un'aggiunta posteriore, cinquecentesca, e che molto probabilmente il santo era in origine San Leonardo. In occasione del restauro la tavola con San Benedetto è stata poi restituita alle dimensioni originali attraverso l'aggiunta di una vasta integrazione in basso. Il retro di ogni scomparto è stato opportunamente parchettato.

Intagliata e figurata su entrambe le facce, la croce doveva ospitare, nella formella centrale della faccia anteriore, un frammento della Vera Croce, come indica l'alloggio cruciforme, oggi vuoto. Sul braccio verticale del recto della croce sono raffigurate, partendo dall'alto, le seguenti scene: Incredulità di san Tommaso, Crocifissione, Discesa di Gesù al Limbo; sui bracci corti: un Evangelista (o Profeta) per parte; sul verso: Annunciazione, Battesimo di Cristo, Presentazione al Tempio, due Evangelisti (o Profeti). Di raffinata qualità nel finissimo intaglio che riproduce persino, nel minuto reticolo delle incisioni, l’effetto delle crisografie, la croce fa parte di un nutrito gruppo, sparso in numerose chiese e musei in Italia e all'estero e prodotto per lo più dai monaci del Monte Athos (da cui la denominazione di croce atonita), caratterizzato dalla precisione lenticolare e dalla cura minuziosa dei dettagli. La recente pulitura a cui è stata sottoposta la cornice d’argento ha rilevato che essa, già considerata opera di maestranze trapanesi del XVII secolo, è in realtà coeva alla croce e databile al secolo XVI. La presenza, su entrambe le facce, di borchiette romboidali a punta di diamante, escludono peraltro che possa trattarsi di una croce pettorale, come si era ritenuto in passato.

I due quadretti a fili incollati acquisiti dalla Pinacoteca Provinciale di Bari sono collegati dalla tematica, legata alla vita eremitica e alla meditazione: è pertanto possibile che entrambi siano stati dipinti per un monastero femminile, come exempla di vita penitenziale e contemplativa. Il primo ha come protagonista Maria Egiziaca, dai lunghissimi capelli che le coprono il seno, vestita solo di un manto che le lascia scoperte le ginocchia e i piedi, inginocchiata a ricevere la comunione dal monaco Zosimo, in piedi dinanzi a lei.

L’opera raffigura uno dei tanti miracoli effettuati da San Nicola dopo la sua morte. Si tratta dell'episodio che vede il Santo invocato da un gruppo di naviganti guidati da un monaco in veste bianca, sorpresi dalla tempesta scatenata dal demonio che ha abbattuto la vela della barca. San Nicola appare dinanzi al mare e placa le acque. La burrasca si va allontanando: le gonfie nubi grigie tendono a squarciarsi, dando posto al sereno. Un'apparizione celeste chiude la composizione: l'immagine della Vergine Immacolata ritratta seduta sulle nubi con la falce di luna ai piedi.

Santa Maria Maddalena, dai lunghi capelli biondi, è semidistesa sulla riva di un fiume, le braccia e le spalle appoggiate ad un rialzo petroso su cui poggia la croce e il cranio, suoi consueti attributi iconografici. La scena è ambientata in un paesaggio boscoso che s’intravede al di là del grande alone di luce dorata, in cui volteggiano angioletti e cherubini, verso cui si volge l’attenzione della Santa. Le scene raffigurate in entrambi i quadretti, appartengono alla corrente iconografica eremitica destinata a finalità edificanti e devozionali.

La scena raffigurata è tratta da un episodio dell’Iliade (Canto X) in cui si narra che i due eroi greci (Ulisse e Diomede) introdottisi nel campo dei Traci, uccidono il re Reso per impossessarsi delle sue armi preziose e dei suoi cavalli bianchi, che secondo quanto predetto dall’oracolo, se si fossero abbeverati nelle acque del fiume Scamandro, avrebbero reso inespugnabile Troia. La narrazione di Omero descrive un momento cruento di alta tensione, ma la scena del dipinto non lascia trapelare nulla di tragico. I due assassini, infatti, sono ripresi in pose studiate e l'espressione li fa somigliare più a dei cantanti lirici in atto di intonare un'aria di particolare enfasi. La zona più luminosa del dipinto ci mostra Reso che, ignaro della sorte che dovrà subire, dorme tranquillamente su un morbido giaciglio. Tutto si svolge nella tenda del re, raffigurata da un ricco e morbido panneggio annodato da un cordone in seta, tanto da sembrare il pesante sipario di un palcoscenico sul quale agiscono i personaggi.

La stampa raffigura la scena dell’ultimo pasto che Gesù consumò con i suoi discepoli a Gerusalemme prima del suo arresto. Cristo e i suoi Apostoli sono raffigurati intorno ad un tavolo, non tutti seduti, ma alcuni adagiati su triclinii. Questa particolare raffigurazione è tratta dalla corrispondente tela dei Sette Sacramenti di Nicolas Poussin, dipinta in due versioni, di cui la prima (1636-1642) conservata a Belvoir Castle, la seconda (1644-1648) in deposito presso la National Gallery of Scotland di Edimburgo.