Un neon con la scritta “bread” (pane) inaugura il percorso espositivo. L’opera funge da manifesto di Contemporanee / Contemporanei rimandando, per un verso, alla produzione di pane nell’antica Provianda di Santa Marta e, per l’altro, con un accento esplicitamente metaforico, all’attuale destinazione universitaria dell’edificio: gli studenti devono infatti essere messi nelle condizioni di procurarsi in futuro il proprio sostentamento, attraverso le conoscenze e le competenze che acquisiranno nel corso degli studi, nonché di condividere i fondamenti etici delle risorse comuni, rappresentate simbolicamente dal pane.

Il contratto che accompagna l’opera prevedeva che la calligrafia della scritta fosse del collezionista Giorgio Fasol, il quale, in questo modo, firma simbolicamente l’avvio del percorso espositivo.

In una performance della durata di quasi 24 ore, l’artista ha spostato manualmente le lancette di un grande orologio al trascorrere di ogni minuto. Senza l’ausilio di alcuno strumento, Moudov ha solamente contato o ha seguito la propria percezione dello scorrere del tempo. Senza voler approdare a una specifica metafora, l’opera si offre filosoficamente a molteplici interpretazioni sul rapporto fra l’essere umano e il tempo.

L’opera è composta da due sfere, ognuna delle quali ne contiene un’altra movibile. Maneggiandole è possibile simulare la successione delle sei fasi lunari. L’oggetto pare il prodotto di un alchimista nostalgico che si propone di misurare il moto senza fine di due sfere, destinate a rincorrersi senza mai raggiungersi. Il titolo rimanda alle geometrie celesti di cui vengono contemplate le traiettorie ondivaghe e sfuggenti. Più che un’immagine fissa, l’opera richiama un concatenamento di immagini, evocando ritmi e suoni cosmici.

La scultura si presenta come il disegno in tre dimensioni delle traiettorie di alcuni fagioli impazziti.  I legumi posizionati a terra schizzano idealmente nello spazio generando un movimento continuo, imprevedibile e colorato che genera dei segni grafici astratti. Rispettando l’idea alla base dell’opera, ogni volta che essa viene installata, l’artista varia a piacere le piegature dei tubi di alluminio generando una nuova, giocosa, costellazione spaziale.

L’opera è un omaggio all’attrice Marlene Dietrich. Il video d’archivio usato da Ventur mostra la diva a Londra nel 1972 quando, settantenne, interpreta la canzone di Pete Seeger Where have all the flowers gone? (Dove sono finiti tutti i fiori?). Nell’installazione una palla da discoteca rivestita di specchietti moltiplica il volto dell’attrice nell’ambiente generando un firmamento in cui brilla solo la stella, inquietante e misteriosa della Dietrich.

Performance di una pianta è un cumulo di macerie costituito dai frammenti di opere distrutte e accantonate nello studio dell’artista. Si tratta principalmente di riproduzioni in cemento di planimetrie di grandi centri commerciali internazionali. Da questi residui depositati in attesa del loro smaltimento, è nata spontaneamente una pianta che l’artista ha deciso di custodire e utilizzare come fulcro di una nuova opera. La natura, tra caso, poesia e forza vitale, riafferma sé stessa e vivifica materialmente e concettualmente un materiale altrimenti inerte.

Il tema dell’immigrazione è al centro della ricerca dell’artista albanese Adrian Paci. La fotografia qua esposta ritrae la figlia dell’artista agghindata come una principessa in posa all’interno del sontuoso Palazzo Visconti di Milano, dove il padre lavorava come restauratore durante i primi tempi del trasferimento in Italia. L’opera è frutto del tentativo paterno di far sentire speciale la propria bambina. L’artista infatti non è tanto interessato alla categoria sociologica dell’immigrato, quanto, piuttosto, alle dinamiche nostalgiche, alla pragmaticità e alle strategie creative che vengono attivate dalla nuova condizione di vita di queste persone.

L’opera riprende liberamente il titolo da un episodio narrato da Truman Capote in Padron Miseria. Una foto a parete mostra l’artista mentre fa scorrere un bastone su un’inferriata emulando il gesto di Sylvia, la protagonista del racconto di Capote. Al centro della stanza si trova una trave dà equilibrio segnata da alcune scritte e disegni. Tutto nell’opera pare rivolto alla celebrazione degli umori dell’adolescenza, come se in essi fosse contenuta una verità intima a cui, maldestramente, da adulti voltiamo le spalle.

La tenda qui esposta rappresenta una sorta di storyboard de Il diavolo nel pozzo, una commedia per burattini nata in Colombia intorno al 1930. Il copione racconta l’autodistruzione di una comunità convintasi della presenza del diavolo nel pozzo del paese. L’artista raffigura alcuni passaggi e immagini salienti del racconto nei riquadri della tenda dove si riconoscono, tra gli altri, il diavolo, il pozzo, i campi attorno al villaggio o l’uccisione degli animali. L’opera fa parte di un progetto dedicato dall’artista al rapporto fra il teatro di figura, la tradizione orale e lo sviluppo di una cultura popolare rivoluzionaria fra l’Italia e il Sud America nella prima parte del Novecento.

L’artista ha scolpito violentemente un blocco di legno di cedro. L’azione pare essere terminata da poco: per terra ci sono i resti e la sbozzatura è rozza, non finita. Più che una scultura, l’opera sembra ciò che rimane di un gesto istintivo e fortemente emotivo. L’artista non ha modellato, ma ha aggredito l’opera, lasciandoci in eredità la sua energia e una struttura gracile e profumata.

È l’artista stessa a descrivere lo spunto che ha ispirato l’opera: “Più volte mi è stato detto che per andare avanti con l’arte avrei dovuto iniziare a leccare. Così ho provato, colorandomi direttamente la lingua e cercando di farlo nel migliore dei miei modi.” Il risultato è una serie di colorate leccate su tela. Sarcastica, policroma e violenta, l’opera è frutto di un pragmatismo cinico e ficcante.

Masashi Echigo è solito fare lunghe passeggiate esplorative in luoghi a lui sconosciuti e raccogliere oggetti, suggestioni e immagini che incontra lungo il percorso. La sua produzione artistica nasce da questi incontri fortuiti. Le sue opere sono infatti assemblaggi di oggetti scartati che, trasfigurati, diventano elemento costruttivo di micro-architetture, metafora delle fragili relazioni che uniscono gli uomini e i luoghi. Nel caso della scultura qui esposta, come suggerisce il titolo, il rimando è probabilmente a una memoria orale, un apologo, un racconto, raccolto dall’artista nei pressi di Roma.

Un lungo bastone appuntito di legno regge una testa di gesso frutto del calco di un albero e di alcune borchie acuminate. La scultura, parte di un gruppo di opere presentate in occasione di una mostra presso la Galerija Skuc di Lubiana, si ispira alle performance musicali del gruppo di thrash metal Slayer. In parte mazza primordiale, in parte pungente stiletto, in parte bastone profetico, l’oggetto rimanda all’immaginario liturgico dei rituali musicali e pare, ironicamente, pronto all’uso. Solo la sua improbabile dimensione lascia intendere che si tratta di una formalizzazione scultorea.

L’opera è una scultura in gommapiuma rivestita con un tessuto tecnico. I pattern del rivestimento sono frutto della scansione di un ritaglio di tela mosso dall’artista durante il processo di acquisizione. Le immagini risultanti sono state poi elaborate digitalmente eliminando alcune parti di colore, infine sono state stampate e cucite attorno a una forma. Il risultato finale manifesta i diversi livelli di traduzione fra un’immagine bidimensionale e la sua fantasmatica impronta scultorea.

 Una grande quantità di filo di nylon bianco giace sul pavimento. Leggera e organica, la scultura pare attraversata da una vitalità latente. Sembra muoversi, respirare o assumere autonomamente un’altra forma. Da un altro punto di vista il groviglio filamentoso – che uno sguardo attento riconosce essere l’espansione ideale di alcuni cristalli di sale posati a terra – assomiglia alle traiettorie di un’orbita celeste. Comunque la si voglia vedere, quella scultura informe e irrequieta ci parla di un tempo e di una natura totali e delle possibili sembianze che potrebbe assumere la nostra anima.

L’opera è parte della serie Redefining the Power (Ridefinizione del potere) in cui l’artista ritrae una serie di performer luandesi in posa su piedistalli vuoti presenti nel paese, retaggio dei monumenti del colonialismo. Le fotografie sono state scattate riproducendo la prospettiva di una serie di cartoline storiche in circolazione all’epoca dell’occupazione portoghese. Le statue furono rimosse dopo la dichiarazione di indipendenza dell'Angola e da allora i basamenti sono rimasti vuoti. Mentre il governo immagina un futuro per quei sostegni, l’artista auspica un’evoluzione sociale che veda quali protagoniste le nuove generazioni.

Lo scheletro di una macchina da scrivere è esposto come se fosse un bassorilievo. L’artista ha eliminato tutti i tasti tranne quelli che compongono la parola “noise” (rumore). Tutto nell’opera rimanda concettualmente alla musica. La parola, come la scrittura, prima ancora che essere significato sono presentate come puro suono. Allo stesso modo la macchina da scrivere è esposta come un dispositivo scultoreo e ritmico.

Gli assemblaggi di Jessica Stockholder tendono a trasfigurare la familiarità di oggetti comuni in opere d’arte. Le relazioni alterate fra le parti e uno spiccato senso del colore sono orchestrati in quadri dal forte valore pittorico. Come per l’opera qua esposta, facendo uso dello spazio illusionistico generato dalla composizione e dalle alternanze delle superfici, gli artefatti dell’artista invitano a un’esperienza della fantasia e della finzione.