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Il Partner rimane proprietario esclusivo di quanto pubblicato sulla piattaforma nella sua sezione di riferimento. Artsupp potrà utilizzare con i mezzi a sua disposizione, online ed offline, le informazioni, i contenuti diffusi ed i dati relativi a tutto ciò che verrà pubblicato su www.artsupp.com al fine di promuovere e pubblicizzare la piattaforma ed i Partner. Il presente contratto è sottoposto alla giurisdizione Italiana e, in caso di controversie, il foro competente è quello di Roma. Roma, Febbraio 2022
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8. Immagini rappresentative degli spazi;
9. Immagini della collezione;
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11. Comunicato stampa e locandine delle mostre in corso e future.
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Opera esposta nella mostra
Inizialmente attribuita a Pier Francesco Fiorentino (Firenze 1444/45 – 1497) l’opera viene assegnata, assieme ad altre, ad uno sconosciuto autore fiorentino utilizzando l’eponimo di Pseudo Pier Francesco Fiorentino (Perkins, 1928; Berenson, 1932). Si ipotizza che questo pittore, attivo a Firenze nella seconda metà del Quattrocento, proponesse pitture di pregio derivate da composizioni di Filippo Lippi e di Pesellino, in questo specifico caso destinate ad un uso devozionale domestico, data la presenza del tabernacolo ligneo e le dimensioni contenute. Manufatti quindi rivolti ad un notabilato come quello presente ad Anghiari nella seconda metà del Quattrocento. La tavola è la stretta derivazione di una Madonna con Bambino, San Giovannino e angeli del pittore Francesco di Stefano, noto come Pesellino, databile attorno al 1455 ora di proprietà del Toledo Museum of Art di Toledo (USA). A testimoniare il successo della composizione peselliniana si portano ad esempio due versioni molto simili attribuibili allo Pseudo Pier Francesco, una delle quali è al Metropolitan Museum of Art di New York (USA).
Il Maestro di San Miniato, recentemente ricondotto al nome di Lorenzo di Giovanni di Nofri (Bernacchioni, 1992), è un pittore che nel 1465-66 risulta allievo di Neri di Bicci (Firenze 1418/20 – 1492) e nel 1472 ha una bottega in proprio “al canto dei Servi” a Firenze. Anche le opere di Lorenzo di Giovanni di Nofri, al pari di quelle attribuite allo Pseudo Pier Francesco Fiorentino, risentono in modo significativo delle esperienze di Filippo Lippi (Firenze 1406 – Spoleto 1469) e del Pesellino (Firenze 1422 c. – 1457). L’opera, completa del suo tabernacolo ligneo, “ben rappresenta la risposta di un Maestro alla richiesta di scene devozionali da parte di clienti che desiderano avere immagini in linea con l’iconografa tradizionale ma allo stesso tempo con costi ridotti”(Dalli Regoli, 1988). Il Bambino e la Vergine tengono in mano il melograno, frutto simbolo della regalità ma anche della passione di Gesù. Si rintracciano, nei bordi della veste, parti di decorazione dorata, mentre il paesaggio con il cielo è la traslazione grafica dell’ AVE REGINA CELORUM. Questo tabernacolo si ipotizza sia un’opera della maturità, per alcuni riferimenti alle forme di Verrocchio ma soprattutto per i contatti con Francesco Botticini (Firenze 1446-1498), con il quale l’autore aveva condiviso gli anni di apprendistato presso Neri di Bicci (Bernacchioni, 1992).
Il pittore Cristofano dell’Altissimo (Firenze c.1522/1525-1605), allievo di Bronzino, venne inviato a Como presso il Musaeum dell’intellettuale Paolo Giovio (Como c.1483-Firenze 1552) a copiare i ritratti lì presenti, trattandosi a quel tempo dell’unica raccolta del genere. Il dipinto su tavola appartiene alla prestigiosa serie di ritratti di uomini illustri realizzata per volontà del Duca di Toscana Cosimo I de’ Medici (Firenze 1519-1574) a partire dal 1552. Oramai scomparsa nella sua interezza a Como, la collezione degli Uffizi di circa 300 ritratti cinquecenteschi, che si sommano ad altri di epoche successive, rappresenta l’eredità del pensiero gioviano e il proposito del Duca Cosimo di raccogliere a Firenze una “summa delle conoscenze dei paesi vicini e lontani”, creando in origine, nella sala delle carte geografiche, il concetto di un mondo dove il Duca ha “il ruolo fondamentale del pacificatore e della guida”(Barbolani 2019). Ora la “serie gioviana” è posta nella Galleria degli Uffizi, lì dove ne venne decisa la collocazione nel 1591. L’opera esposta in questa sede sembra avere come riferimento il ritratto di Federico realizzato da Pedro Berreguete (Paredes de Nava 1450- Avila 1504), anziché le altrettanto celebri raffigurazioni di Piero della Francesca (Borgo San Sepolcro c.1410-1492) o il rilievo marmoreo di Domenico Rosselli (Pistoia 1439 –Fossombrone 1497-98), mentre della stessa vi è una copia in olio su tela presso la Galleria Colonna a Roma.
Il dipinto rappresenta il fortunato soggetto del pittore urbinate Raffaello Sanzio, che raffigura Giuliano della Rovere come papa Giulio II in posizione seduta e di tre quarti. Le numerose copie dell’originale (di cui se ne elencano alcune: a Palazzo Pitti nella versione di Tiziano, un olio su tela alla Galleria Borghese di Roma, oppure un’altra allo Städel Museum di Francoforte), testimoniano il successo di un soggetto il cui originale è stato individuato nella pittura su tavola di pioppo alla National Gallery di Londra. Giulio II è ritratto fra l’ottobre/dicembre 1510 e il marzo 1512 quando giurò di farsi crescere la barba fino a quando i francesi non fossero sconfitti, in un momento di forte debilitazione fisica. Il “papa guerriero”, le cui azioni militari determinarono il soprannome, venne dipinto da Raffaello come un uomo stanco e preoccupato, un’immagine sorprendentemente intima, che venne esposta dopo la morte il 12 dicembre 1513 nella chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma. Lo sfondo verde fu un ripensamento dello stesso Raffaello, forse scelta ispirata al ritratto di Giusto di Gand del papa Sisto IV, modifica che sottolinea il motivo delle due ghiande dorate sulla sedia, che alludono al suo cognome e evidenzia le cromie rosso, bianco e verde ripetute nelle pietre degli anelli, i colori delle tre virtù teologali: carità, fede e speranza.
Opera ritenuta del Bronzino nel primo Novecento e successivamente assegnata ad Alessandro Allori, viene poi attribuita ad un anonimo francese, ipotesi quest’ultima che viene considerata l’unica corretta. Il giovane uomo in armatura con la mano appoggiata sull’elmo ha una postura speculare al ben più celebre ritratto di Cosimo I de’ Medici realizzato da Bronzino attorno al 1545 e replicato in numerose copie. Proprio la posizione del personaggio potrebbe far pensare all’ipotesi che possa trattarsi di un pendant. Interessante è come viene trattata la foggia del copricapo piumato e l’armatura con parti dorate e rivetti anch’essi di oro, ma con una sistematica abbondanza di decorazioni e figure che ad oggi risultano enigmatiche. Nel sigillo sotto la goletta dell’armatura è raffigurata quella che sembra una Minerva all’interno di una corona d’alloro sorretta da due personaggi alati. Sotto, sulla pancera, un uomo in armatura con elmo piumato, spada al fianco e lancia. Proprio l’armatura, così ricca e complessa, assieme al portamento del personaggio, introduce il tema della trasformazione della figura dell’uomo d’armi quattrocentesco, che nel Cinquecento tende a divenire uomo di corte e confidente, ad esempio come il noto Baldassare Castiglione (Casatico, 1478 – Toledo, 1529).
Questi due dipinti, l’uno il pendant dell’altro, rappresentano due battaglie ignote, ma la foggia dei vestiti all’orientale di una parte delle figure le identificherebbero come fatti d’armi fra cristiani e turchi. Tempesta, molto noto per la sua attività di incisore, proprio a partire dal 1613 realizzò la serie di opere a stampa delle “battaglie bibliche” dedicata al granduca Cosimo II assieme ai fogli della “Gerusalemme liberata” (CHIARINI 1989), soggetti che gli permisero di riscuotere un certo successo in casa Medici e nella Corte fiorentina. Difatti è dalle “battaglie bibliche” che si trovano i maggiori riscontri compositivi e il riutilizzo di medesime scene (BARTSCH 1983). La commissione di queste tele è difatti inquadrabile in una espressa volontà di ottenere “due battaglie” del Tempesta da parte del cardinale Carlo de’ Medici. Queste due opere risultano poi essere in possesso del granduca Ferdinando nell’anno 1633.
Questi due dipinti, l’uno il pendant dell’altro, rappresentano due battaglie ignote, ma la foggia dei vestiti all’orientale di una parte delle figure le identificherebbero come fatti d’armi fra cristiani e turchi. Tempesta, molto noto per la sua attività di incisore, proprio a partire dal 1613 realizzò la serie di opere a stampa delle “battaglie bibliche” dedicata al granduca Cosimo II assieme ai fogli della “Gerusalemme liberata” (CHIARINI 1989), soggetti che gli permisero di riscuotere un certo successo in casa Medici e nella Corte fiorentina. Difatti è dalle “battaglie bibliche” che si trovano i maggiori riscontri compositivi e il riutilizzo di medesime scene (BARTSCH 1983). La commissione di queste tele è difatti inquadrabile in una espressa volontà di ottenere “due battaglie” del Tempesta da parte del cardinale Carlo de’ Medici. Queste due opere risultano poi essere in possesso del granduca Ferdinando nell’anno 1633.
Le pitture raffiguranti battaglie realizzate nel XVII e XVIII secolo hanno come riferimento i soggetti Cinquecenteschi di Leonardo Da Vinci, Giulio Romano, Giorgio Vasari e Tintoretto, solo per citarne alcuni fra i più memorabili.
Il giovane Courtois attorno al 1636 lascia la Borgogna devastata dalla Guerra e si trasferisce a Milano, dove fino al 1639 si arruola in una compagnia di soldati al servizio della Spagna. Questi tre anni costituiscono per Jacques la base del suo repertorio iconografico, come testimoniato dallo storico Filippo Baldinucci (Firenze, 1624 – 1696), che gli domanda personalmente perché le sue opere appaiono ”così vere e non finte”. Il pittore risponde che dipinge quello a cui ha personalmente assistito. In Italia conosciuto anche come Giacomo Cortese, Jacques si traferisce a Roma a partire dal 1640, dove trascorre una buona parte della sua vita, ma soggiornando in precedenza a Bologna e in seguito a Venezia. Ha anche modo di lavorare a Firenze per il Principe Mattias de’ Medici (Firenze, 1613 – Siena, 1667), comandante dell’armata medicea durante l’ultima fase della Guerra dei Trent’anni (1618-1648), che gli commissiona alcune pitture, fra le quali la celebre tela raffigurante la Battaglia di Lützen ora a Palazzo Pitti.
Nella grande tela qui esposta, benché da alcuni considerata di scuola e afferente alle opere giovanili di Pandolfo Reschi (Chiarini, 1973), oltre al terreo sgomento nei volti dei cavalieri, si ripropongono alcune delle caratteristiche del Nostro nella distinzione delle parti in lotta, dove le sciarpe e le piume rosse si contrappongono a quelle blu, come simbolo di una sistematica opposizione fra gli Asburgo e la Francia (Lallemand-Buyssens, 2010), che caratterizzava la quarta fase della Guerra dei Trent’Anni alla quale il giovane Courtois aveva partecipato.
Altre opere esposte
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