Il corredo appartiene a una delle sepolture femminili di spicco della necropoli di Torre Mordillo (Spezzano Albanese- CS), sebbene vi compaia anche una punta di lancia in ferro (oggetto di solito pertinente a corredi maschili), in associazione con l’ampio repertorio di fibule in bronzo e ferro – tra le quali spicca il set composto da 6 fibule a quattro spirali in bronzo, una a placchetta d’osso, una ad arco rivestito, tre a occhiali, due in ferro e l’altra in lamina di bronzo –, con numerosi vaghi in vetro e ambra, fermatrecce, anelli e vari elementi ornamentali legati alla cintura, tra cui un pendaglio “a xilofono”. La presenza della punta di lancia potrebbe confermare la pertinenza del corredo a una sepoltura bisoma, ovvero con la presenza di un soggetto maschile e uno femminile deposti all’interno del medesimo contenitore funerario (probabilmente una cassa lignea successivamente deperita), come altre note nel mondo enotrio, che sottolineano l’importanza del legame familiare di coppia. Fanno parte del corredo anche una tazza carenata, una brocca e una pisside in impasto.

Capitello ionico in arenaria rinvenuto casualmente insieme ad altri massi squadrati in località Villanello in sinistra del Busento poco a monte della confluenza con il fiume Crati. Esso probabilmente in origine faceva parte della decorazione di una tomba a camera – sepoltura di un personaggio dell’élite brettia, forse un guerriero - della quale null’altro ci è pervenuto. Fratturato al piano di posa e mancante di ampia parte di un balaustrino, il capitello mostra superfici diffusamente scheggiate, abrase e consunte. L’abaco, liscio e piuttosto rilevato, ha sez. approssimativamente parallelepipeda e presenta sul piano di attesa un foro centrale di forma quadrangolare poco profondo (3,5x4x1,2), verosimilmente funzionale all’inserimento di un perno di connessione con soprastante architrave. Al di sotto, il pulvino rivela un intaglio e una decorazione decisamente essenziali, con i canali delle volute inflessi e a fondo lievemente concavo, occupati al centro, su entrambe le facce e in corrispondenza dell’attacco con l’echino, da una palmetta a sette lobi (i due inf. laterali arricciati verso l’int.). Le volute, costituite da 1 avvolgimento e ¾ ca., terminano centralmente con occhio pieno, mentre l’echino, fortemente schiacciato, è marcato sup. da un tondino rilevato e occupato al centro dal ‘rigonfiamento’ da cui spiccano le palmette. Gli altri due lati del pulvino presentano balaustrini completamente lisci e di forma approssimativamente cilindrica (discretamente conservato quello di sinistra). Ancora al di sotto, il sommoscapo del fusto di colonna, solidale al capitello stesso, risulta apparentemente privo di apofige.

Frammentario. Si conservano labbro, collo e parte sup. del corpo. Labbro estroflesso, collo cilindrico, corpo piriforme, ansa verticale a nastro impostata su orlo e spalla. Sul labbro, denti di lupo e baccellature; sul profilo est. del labbro e dell’ansa, fila di punti; sul collo, doppia fila di punti; sulla spalla, baccellature; sul corpo, campo con fregio zoomorfo delimitato in alto da una linea orizzontale: sfingi affrontate e, sotto l’ansa, cigno; rosette in funzione di riempitivi. Sull’ansa, motivo a treccia.

Lacunosa. Arco a contorno romboidale e sez. a fascetta rettangolare; molla a un avvolgimento a sez. circolare; spillone dritto; staffa non conservata. La decorazione incisa sull’arco foliato presenta, nei campi triangolari presso la molla e la staffa, due coppie di linee rette e convergenti, una su ciascun margine, fiancheggiate int. da una fila di puntini; nel campo centrale, distinto dai precedenti da due coppie di linee trasversali, due coppie di linee simmetricamente convesse verso l’int., fiancheggiate est. da una fila di puntini, isolano un motivo a clessidra o a pelta, a risparmio.

Si tratta di due skyphoi e un guttus provenienti dalla necropoli brettia di contrada Moio a Cosenza, rinvenuta nel 1932. Durante i lavori di sbancamento per la costruzione dell’Ospedale Civile, alle falde di una collina che da nord-ovest digrada verso il Busento a sud, furono individuate settanta tombe – tutte del tipo alla cappuccina ad eccezione di una sola a cassa – alcune delle quali vicine tra loro tanto da aver fatto supporre una divisione per gruppi familiari. Gli skyphoi sono oggetti che in una stessa tomba si ripetono in più varianti, mentre i gutti, oggetti generalmente identificati – per la loro caratteristica forma con beccuccio di versamento ed un’ansa opposta a 90° – come contenitori per la somministrazione di liquidi, spesso attribuiti ad un uso strettamente connesso ad ambito infantile, provengono da tombe in cui sono associati a skyphoi e ad unguentari, che non si può dire con certezza appartenere a bambini.

La tomba 21 ha restituito il corredo, tra quelli conservati, più ricco della necropoli, sia come quantità di reperti che per varietà tipologica. In essa un’asta frammentaria - identificata come un frammento di kottabos/candelabro – è associata ad un cratere, una kylix, uno stamnos, tutti a vernice nera e databili dalla seconda metà del IV secolo a.C., ed un peso da telaio. La particolarità di questo corredo è che vi si trovano insieme oggetti connessi alla sfera femminile – come lo stamnos (o lebès gamikòs) e il peso da telaio – e altri che richiamano pratiche quali quelle del simposio – cui si riferisce il cratere associato alla kylix e all’asta di kottabos/candelabro – riservate al mondo maschile. Si può ipotizzare che si tratti di due tombe distinte, una femminile e l’altra maschile, vicine tra loro e forse confuse al momento dello scavo.

Questi oggetti provengono da una vasta area sepolcrale individuata nel 1888 ma già nota, che per la cronologia dei materiali recuperati, insieme alle suggestioni di ordine “topografico”, fu ritenuta pertinente alla necropoli di Thurii. Si tratta di due pissidi skyphoidi e due coperchi decorati a figure rosse, dove a palmette a ventaglio con foglie nascenti da un nucleo centrale triangolare sovraddipinto e delimitate da girali a una voluta, spesso sovraddipinti, si alternano profili femminili con capelli raccolti in un kekryphalos decorato a puntini e con stephàne a raggi sovraddipinti, non sempre ben conservati. Altre sovraddipinture sottolineano i nastri che legano il kekryphalos e la collana intorno al collo delle figure femminili.

Questo oggetto è stato rinvenuto nella tomba 21 della necropoli di contrada Moio associata con un kottabos/candelabro, un cratere, uno stamnos, tutti a vernice nera e databili dalla seconda metà del IV secolo a.C., ed un peso da telaio. Si tratta di una coppa per bere, caratterizzata da un orlo svasato con estremità assottigliata; vasca profonda a profilo concavo-convesso, con doppia risega all’altezza delle anse; alto piede ad anello modanato; anse orizzontali oblique a maniglia ripiegate verso l’alto. Sul fondo int. della vasca è impresso un motivo a fiore con cinque petali inscritto in un cerchio; all’est. della vasca, all’altezza delle anse, fascia con gruppi di tre linee verticali incise. Il fondo est. presenta tre fasce di vernice alternate a fasce risparmiate.

Medaglione di guttus in cui è rappresentata a rilievo, tra due scanalature concentriche, una Gorgone dal volto molto paffuto, sormontato da una chioma costituita da riccioli gonfi. I tratti del volto sono ben rilevati: arcate sopraccigliari marcate; palpebre sup. e occhi evidenziati; naso ingrossato; labbra da cui fuoriesce la lingua; concavità segnata sul mento.

Queste fibule in bronzo appartengono a una classe caratteristica del primo Ferro calabrese particolarmente ben attestata nella Sibaritide, senz’altro uno dei principali distretti produttivi. L’arco a disco circolare in lamina presenta un’ampia costolatura mediana trasversale, rilevata e ornata con quattro solcature longitudinali marginate da fasci di tre brevi solcature trasversali in corrispondenza dell’innesto della molla e della staffa, entrambe in verga a sez. circolare; molla a un avvolgimento e spillone rettilineo, parallelo all’arco; piccola staffa simmetrica e triangolare. Presentano una costolatura e bordo del disco, lacunoso, marginati con una sottile linea incisa a fitto zig-zag. I tipi con grande arco scudato ovale a sviluppo coassiale allo spillone, con costolature longitudinali, o a disco, quando rinvenuti in contesti chiusi, ricorrono in corredi femminili significativi e sono sovente deposti in coppie identiche a caratterizzare la parure.

Gruppo di circa cento lucerne rinvenute nell’antro naturale in cui sgorga una sorgente di acqua sulfurea, denominato “delle Ninfe”, alle falde del Monte Sellaro, a Nord della piana di Sibari. Si tratta di lucerne prodotte in serie con stampi (“a matrice”) di varie forme, con disco centrale decorato con soggetti di diverso ambito: sfera religiosa e mito (Atena, Ercole, Pegaso, eroti), trionfo (Vittoria alata, corone di foglie e ghirlande), teatro (maschere), giochi gladiatorii e mondo animale, spesso con significato simbolico. Non mancano i dischi con motivi vegetali o del tutto privi di decorazione. Alcune di esse, inoltre, recano il marchio della fabbrica che le ha prodotte. La presenza nella grotta di una sorgente di acqua sulfurea e l’elevato numero delle lucerne fanno pensare che le lucerne possano far parte di un deposito votivo, durato per almeno due secoli.

Questo corredo appartiene ad un uomo che era armato di spada, infilata nel fodero rivestito in lamina di bronzo, e di una lancia; portava inoltre una piastra pettorale protettiva (cardiophylax), parte dell’armatura, e aveva un rasoio. Il suo vestito può essere ricostruito grazie anche alle riproduzioni presenti sulle stele della Daunia (attuale provincia di Foggia), che mostrano delle piastre pettorali analoghe a questa, o ad altre, trovate per esempio a Lavello (PZ). Da due spallacci di cuoio pendeva una fascia su cui era inchiodata la piastra, e quindi appesa la spada; un sistema di lacci, fissati a un anello in bronzo sulla schiena, teneva ferma l’armatura. Questa tomba, nella necropoli di Torre del Mordillo, suggerisce l’esistenza di una forma di leadership, tracciata dalla presenza di una combinazione di armi prestigiose quali la spada di bronzo con fodero e il cardiophylax, elemento certamente esclusivo di tombe di individui emergenti.

Statuette “dedaliche” in terracotta rappresentanti una figura femminile stante, con braccia e mani sproporzionatamente lunghe aderenti al peplo, appartenenti a due tipi distinti. Il primo è documentato da una sola statuetta di esili proporzioni, che disegnano una figura longilinea e slanciata Le restanti, pur affini per impostazione della figura e schema iconografico complessivo, si differenziano per le proporzioni più tozze e per la diversa resa dei dettagli anatomici del volto e di alcuni particolari del vestiario; variabile è la caratterizzazione della capigliatura, liscia oppure scandita da incisioni oblique o a spina di pesce. Il dorso della maggior parte degli esemplari è liscio, ma in una statuetta la resa plastica della capigliatura prosegue anche sulla faccia posteriore. Su alcune di esse, invece, sul dorso è disposta una banda longitudinale con motivo a spirali correnti. Le statuette probabilmente riproducano la statua della divinità, femminile, alla quale si rendeva culto. Il culto che si praticava a Cozzo Michelicchio era quasi sicuramente rivolto ad impetrare la fertilità, dei campi, delle greggi, delle donne; è probabile che esso fosse partecipato sia da parte dei Greci, ormai stanziatisi a Sibari da quasi un secolo, sia da parte dei discendenti degli Enotri.

Vaso (pseudo-pelike) rinvenuto nel 1933 in una tomba alla cappuccina in contrada Cannuzze di Cosenza. Decorato a rilievo su entrambi i lati con soggetti riferibili al culto dionisiaco (Dioniso ebbro e nudo tra tralci di vite, da un lato; un Sileno anziano – Papposileno - con timpano, dall’altro) e importato probabilmente dall’Asia Minore. Insieme ad esso furono recuperati un contenitore cilindrico in bronzo, probabilmente utilizzato come custodia per attrezzi chirurgici, ed una sonda a cucchiaio (cyathiscomela).

Fa parte della sezione del Museo dedicata al Risorgimento e allestita in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Ritrae i fratelli veneziani Attilio ed Emilio Bandiera protagonisti del Risorgimento, giustiziati per fucilazione in seguito alla sentenza della corte marziale del Regno delle Due Sicilie a Cosenza il 25 luglio 1844 dopo un fallito tentativo di sollevare le popolazioni calabresi contro il regno di Ferdinando II nella prospettiva di un'unificazione nazionale italiana.