Descrizione
Come il busto di Pietro Zen, questo condottiero giunse al Seminario per dono della nobildonna Chiara Zen contessa Carlotti.
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2. Descrizione dell’ Istituzione;
3. Localizzazione;
4. Orari di Apertura al pubblico;
5. Sito web Istituzionale;
6. Avatar;
7. Immagine o Video di Copertina;
8. Immagini rappresentative degli spazi;
9. Immagini della collezione;
10. Didascalie opere della collezione(autore, titolo, data, tecnica);
11. Comunicato stampa e locandine delle mostre in corso e future.
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Venezia, Veneto, Italia chiuso visita il museoarrow_right_alt
Il dipinto è ispirato alle Metamorfosi di Ovidio. A sinistra troviamo la scena in cui Apollo si appresta ad uccidere il serpente Pitone, di cui tuttavia oggi distinguiamo la sola figura di Apollo, con l'arco teso, pronto ad infliggere il colpo finale al mostro che doveva essere posto di fronte a lui. Si prosegue verso destra dove, al centro sullo sfondo, si svolge la disputa tra Apollo, in terra, e Cupido, in cielo su di una nuvola. Apollo si vanta della sua recente impresa e denigra le capacità del fanciullo Cupido come arciere; questi decide di vendicarsi, scagliando verso Apollo la freccia che lo farà innamorare della prima fanciulla che vedrà. Un'altra freccia viene preparata con la punta rovescia in modo da mettere in fuga l’amore della donna che ne sarà colpita: la ninfa Dafne. Apollo comincia ad inseguire Dafne che, vedendosi raggiunta, invoca l’aiuto del padre il dio-fiume Peneo, (forse proprio quel fiume che scorre sotto il ponte). La sua preghiera viene esaudita ed ella è rappresentata nell'atto di trasformarsi in alloro.
Quest’opera è l’unica della sua collezione, che il marchese Manfredini si è fatto dipingere (procurando egli stesso la tavola di noce al pittore). Il soggetto proviene dalla mitologia greca: si riferisce all’incidente di caccia nel quale Cefalo uccide per errore l’amata Procri. Mentre lo sfortunato eroe tenta invano di tamponare la ferita provocata dalla sua lancia, sullo sfondo Cupido piange la fine di un amore travagliato.
Penelope è al telaio intenta a tessere quella tela con la quale temporeggiò di fronte alle proposte di matrimonio dei Proci che aveva promesso di prendere in considerazione soltanto a tela ultimata. È possibile che il soggetto sia stato scelto come modello di fedeltà nuziale ed inviato alla futura sposa in occasione della stipula del contratto matrimoniale (ciò sarebbe testimoniato anche dal bassorilievo sottostante il telaio, nel quale alcune donne vanno a procurarsi i fusi da filare).
Secondo un'altra interpretazione, invece, la solenne postura della donna, l’algido volto e il braccio che sembra impugnare un’asta piuttosto che un telaio sembrano ispirarsi a qualche modello della statuaria antica. Anche il bassorilievo rappresentato a destra mostra probabilmente Minerva che, in abiti più virili rispetto alla figura stante, insegna alle fanciulle l’arte della tessitura. La tela, inoltre, è purpurea mentre, come sappiamo dalle fonti, il sudario di Laerte intessuto da Penelope era di colore bianco. D’altra parte se, in attesa di ulteriori conferme, il pannello facesse parte della serie Petrucci, il tema trattato sarebbe pertinente al programma del ciclo impostato sui miti relativi alla mitica fondazione della città di Siena.
Un angelo emerge in un fulgore di luci tra le nubi del cielo notturno per dare ai pastori l’annunzio della nascita di Gesù Salvatore. Uno solo di essi gli rivolge da subito attenzione tremante; gli altri ancora dormono o sono intenti alla cura degli animali.
Questo umile mondo pastorale - che Jacopo Bassano e la sua bottega conoscono bene e portano alla ribalta della grande arte - è il primo destinatario della più strabiliante notizia: Dio si è fatto uomo. Nel buio della notte, simbolo del male e del peccato, un semplice pastore si lascia attirare dalla nuova luce, seguito alle sue spalle da una pecora che alza la testa: è la prima di quel numeroso gregge di fedeli che il Figlio di Dio è venuto a radunare.
Tre lunghissime scale a pioli permettono a tre uomini in vesti succinte, più un quarto in abiti moderni (forse un autoritratto del pittore stesso), di deporre dalla croce il corpo livido e senza vita di Cristo. Il suo sangue è stato interamente versato per amore e ora sembra essersi simbolicamente trasferito nel rosso manto di Giovanni: questi è il discepolo che è rimasto fino all’ultimo sotto la croce e ha raccolto la testimonianza dell’acqua e sangue usciti dal costato di Gesù.
Nell’angolo di sinistra, Maria sviene sorretta dalle pie donne; sulla destra a terra giace il corpo riverso di uno dei ladroni, mentre l’altro è portato via a spalla da un uomo di fatica. Nel computo del giorno ebraico il calar del sole dà inizio al Sabato e per non esporre i corpi nella solennità della pasqua, che sta per iniziare, occorre dare velocemente sepoltura.
A questo allude il pittore inserendo sullo sfondo il cielo colorato dalle luci del tramonto e lasciando intravedere la porta del sepolcro.
Questa immagine del volto di Cristo è probabilmente ispirata alla cosiddetta leggenda di Edessa.
Francesco del Pugliese, mercante e mecenate fiorentino acquistò la tavola centrale di mano fiamminga e commissionò a Filippino Lippi le due ante laterali. Lippi in quegli anni (1487-1502) affrescava per Strozzi la cappella di San Giovanni evangelista in S.M.Novella a Firenze. Probabilmente ciò influì sulla scelta dei soggetti tratti dal vangelo giovanneo.
A sinistra Gesù incontra la samaritana al pozzo. Nella tavola destra avviene l'Incontro tra Maria Maddalena e Gesù nel giardino del sepolcro.
L'opera è composta quasi giustapponendo "a decoupage" ritagli da opere leonardesche. Il Bambino è una ripresa letterale di quello ne La Vergine delle rocce (conservata al Louvre), mentre la testa di Giuseppe richiama gli studi a disegno che Leonardo conduceva sulla figura umana.
Girolamo è inginocchiato a studiare e tradurre la Sacra
Scrittura, quando lo chiama una voce da cielo (simbolicamente rappresentata da
una tromba) che lo fa girare di scatto e guardare verso l’alto. Si riferisce ad
un episodio della sua vita: una visione avuta durante il suo primo viaggio in
Palestina, narrata in una lettera dello stesso santo a Eutichio:
«Improvvisamente venni afferrato in ispirito e trascinato di fronte al seggio
del Giudice... Mi fu chiesto di dichiarare la mia condizione e io risposi che
ero cristiano. Ma Colui che presiedeva disse: "Tu menti, tu sei
ciceroniano, non cristiano. Infatti ove è il tuo tesoro, là sarà il tuo
cuore"... Giurando feci appello al nome del Signore: "O Signore, se
mai possiederò ancora libri mondani o li leggerò, ti avrò rinnegato"»
(Girolamo, ed. 1980, pp. 125-129).
La Vergine in trono tiene sulle ginocchia il Bambino il quale è colto nell'atto di incoronare santa Eulalia, patrona di Barcellona, che giovanissima subì il martirio nel IV secolo in Spagna. Alle spalle della santa compare la croce a “X”, uno dei suoi attributi iconografici: dopo il martirio, infatti, il corpo senza vita di Eulalia venne esposto su una croce perché fosse di monito a quanti intendessero continuare a professarsi cristiani. Non è ancora noto come l'opera di questo pittore catalano sia giunta a Venezia, è chiaro soltanto che fu donata al Seminario nel 1925.
Il santo è in abiti liturgici e la sua aureola è decorata da caratteri quasi cufici. Egli ha in mano un libro su cui poggiano le tre sfere d’oro, stilizzazione delle borse di monete con cui, secondo la leggenda, salvò dalla prostituzione le tre figlie di un nobile decaduto offrendogli le somme necessarie a preparare la dote di ognuna di loro, divenute così presto spose.
La Vergine, seduta in trono, tiene in braccio il Bambino Gesù che si rivolge allo spettatore benedicente, ritto in piedi e spoglio: Genuflesso, sta un abate benedettino che ha deposto la sua mitria sul gradino del trono: si tratta forse di Vettore Trevisan, ma altri lo identificano con l’abate Canal. A sinistra vi è san Cipriano, titolare dell’abbazia, in abito vescovile mentre regge il pastorale. Lo scomparto destro reca san Benedetto, fondatore dell’ordine religioso che viveva nell’abbazia muranese. Entrambe i santi sono avvolti in sontuosi mantelli ricamati, decorati con perle e chiusi da spille gemmata. Sopra alla tavola centrale, una mezzaluna con pesanti ridipinture rappresenta il Padre eterno circondato dagli angeli.
Il gruppo marmoreo raffigura solo un Magio che porge un dono al Bambino Gesù, riconoscendo in lui il Figlio di Dio; Maria, coronata come una regina, rappresenta la Madre Chiesa in grembo alla quale Cristo regna come un imperatore sul trono e benedice chi si avvicina a Lui. San Giuseppe veste come un viandante medievale e con la mano sul volto medita a lato la scena, ma è pronto a partire verso l’Egitto per mettere in salvo il Bambino e sua Madre, sottraendolo alla minaccia di Erode che vuole ucciderlo.
Padre Giannantonio Moschini (1842) racconta che l'opera fu “donata” al Seminario da don Fortunato Maria Rosata, allora Cancelliere Patriarcale. Gli studi critici ormai concordano sull’ipotesi che la scultura originariamente policroma e appartenesse ad un ciclo sulla Natività concepito per la Basilica di San Marco. La resa dei dettagli è eccezionale; la scultura di elevato valore è attribuita per affinità stilistiche al cosiddetto Maestro dei Mesi di Ferrara (attivo primi anni XIII sec.).
Come il busto di Pietro Zen, questo condottiero giunse al Seminario per dono della nobildonna Chiara Zen contessa Carlotti.
Questa testa di Cristo è una copia del famoso “Volto Santo” che è un crocifisso-reliquiario ancora venerato a Lucca all'interno della Chiesa di San Martino. I mercanti lucchesi, che abitavano a Venezia, costruirono una propria cappella nel convento dei frati Serviti a Cannaregio intorno al 1360-65.
Altre opere esposte
Come il busto di Pietro Zen, questo condottiero giunse al Seminario per dono della nobildonna Chiara Zen contessa Carlotti.
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