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Genova, Liguria, Italia chiuso visita il museoarrow_right_alt
Gio Carlo Doria era nobile genovese con una grande passione per le arti. Nella sua casa si conservavano centinaia di tele, tra cui questo quadro. Dipinto nel 1606 dal giovane Pieter Paul Rubens, padre del barocco e tra i più richiesti pittori europei, il ritratto raffigura il nobile a cavallo: onore degno di un sovrano. La strana calma di Gio Carlo rappresenta forse il suo dominio sulle forza della natura. Nel corso della Seconda Guerra Mondiale, prima di entrare a far parte delle collezioni del museo, l’opera era stata trafugata dai nazisti.
La scultura era parte del monumento di Margherita di Brabante, moglie dell’imperatore Arrigo VII. Morta a Genova nel 1311, ebbe l’onore di essere immortalata nell’unico sepolcro mai scolpito da Giovanni Pisano, il massimo scultore del gotico italiano. I vari elementi che lo componevano si dispersero quando San Francesco, la chiesa genovese in cui si conservava, fu distrutta alla fine del Settecento. Nel 1960 la Giustizia, capolavoro di espressività medievale, fu ritrovata in un giardino genovese, riutilizzata come ornamento per una fontana. Insieme al gruppo scultoreo con l’Elevatio Animae, oggi al museo di Sant’Agostino, costituisce uno degli unici elementi superstiti del monumento.
La piccola tavola si presenta con una pellicola pittorica molto consumata, e diversi dettagli sono purtroppo perduti. Tuttavia, i brani superstiti permettono di avvicinare il dipinto al catalogo di Fra Bartolomeo, frate domenicano e pittore attivo a Firenze tra Quattro e Cinquecento. La scena raffigura il momento in cui Cristo, risorto, è riconosciuto dalla sua seguace Maddalena, che si getta ai suoi piedi. Tuttavia Gesù è ormai parte del regno dei cieli e la ammonisce al grido di “Noli me tangere”, non mi toccare. Fra Bartolomeo si misurò più volte con questo soggetto, di cui sopravvivono altre versioni e alcuni disegni.
La tavola è una copia con varianti di un dipinto di Andrea del Sarto, uno dei maggiori artisti fiorentini del primo cinquecento. Fu eseguita da Pier Francesco di Jacopo Foschi, suo allievo. Rispetto all’originale, qui si nota un’atmosfera più classica e pacata, dove le figure emergono dall’oscurità del fondo. Inoltre, a differenza dell’opera del maestro Pier Francesco inserì dettagli come la croce di San Giovannino e il telo su cui è steso Gesù Bambino, elementi che alludono alla Passione di Cristo.
Per provare la sua fede, Dio chiese al patriarca Abramo di sacrificare Isacco, suo unico figlio. Il dipinto raffigura il momento in cui un angelo mandato da Dio ferma il braccio dell’anziano prima che questi compia il suo gesto. Sono qui presenti tutti i caratteri dell’arte di Orazio Gentileschi, pittore pisano capace di trasformare il linguaggio di Caravaggio in una sinfonia di luci cristalline e colori vivissimi. Il pittore fu molto apprezzato a Genova, dove visse per alcuni anni e dove questo dipinto è documentato almeno a partire dal Settecento.
Scipione Clusone fu un condottiero al servizio della Repubblica di Venezia e qui appare ritratto mentre si veste aiutato da un paggio nano. Presenza costante nelle corti del tempo, dove lavoravano come servitori, i nani erano spesso inseriti nei dipinti che ritraggono la società veneziana del tempo. Nel Novecento, il quadro fu trafugato dai soldati tedeschi con l’obiettivo di esporlo in un museo voluto da Hitler. Quando nel 1988 rientrò in Italia, fu destinato a questo museo.
La pittura dinamica del napoletano Luca Giordano affascinò i genovesi, che collezionarono diversi suoi dipinti. Questa tela era di proprietà del nobile Costantino Balbi, dalle cui raccolte arrivarono a Palazzo Spinola molte opere per via ereditaria. Solo in anni recenti la tela, non compresa in questi passaggi ereditari, è stata comprata dal museo. Rappresenta un episodio della leggenda di Roma: la città era stata appena fondata e il re Romolo decise di popolarla rapendo le donne di un popolo rivale, i Sabini.
I dipinto, assieme a quello con Giaele e Sisara, provengono da una villa ubicata a Genova Cornigliano, già appartenuta agli Spinola e poi ceduta nell’Ottocento alla famiglia Dufour. Vari documenti dell’Archivio storico conservato a Palazzo Spinola ci informano di numerosi interventi di rinnovo in quella residenza di villeggiatura, soprattutto per opera di Paolo Francesco Spinola, proprietario di Palazzo Spinola tra Sette e Ottocento.
Come nella tela che fa da pendant, anche in questo dipinto è stato raffigurato un episodio tratto dal Libro dei Giudici con l’intento di esaltare due eroine dell’Antico Testamento: Dalila, assoldata dai filistei, riesce a farsi rivelare da Sansone che il segreto della sua forza risiede nei capelli. La fanciulla gli fa tagliare quindi la chioma mentre dorme, favorendo la sua cattura.
L’episodio qui raffigurato narra di come Giaele, moglie del capo tribù Eber, uccise il generale cananeo Sisara conficcandogli un piolo nella tempia, dopo averlo persuaso a riposarsi nella sua tenda.
La scena viene presentata da Bartolomeo Guidobono con eloquente teatralità. L’artista era infatti celebre all’epoca per il suo spiccato gusto decorativo e, con grande versatilità, eseguiva ampi cicli di affreschi, così come dipinti su ceramica.
La tela esposta accanto a questa, raffigurante Sansone e Dalila, è caratterizzata dalle medesime dimensioni e ne costituisce sin dall’origine il pendant.
La tela fa parte di un nucleo di opere provenienti da Palazzo Cattaneo Adorno acquisito dalla Galleria Nazionale della Liguria. Come le altre due composizioni, dal medesimo formato monumentale con Mercurio e Argo e Perseo e Andromeda, il dipinto rappresenta un episodio delle Metamorfosi del poeta latino Ovidio.
Qui assistiamo alla disperata fuga di Siringa, rincorsa dal dio Pan, poco prima della sua trasformazione in canne palustri. La ninfa opererà la propria metamorfosi grazie all’intervento delle Naiadi, rappresentate sulla sinistra, che la salveranno così dalle brame di Pan. Egli si troverà ad abbracciare un fascio di canne e, incantato dal rumore del vento che le attraversa, inventerà il suo flauto, chiamato anche siringa in onore della ninfa.
Il dipinto è frutto della collaborazione di Gregorio e Lorenzo De
Ferrari. Il primo fu uno dei protagonisti della stagione barocca genovese. Il
figlio Lorenzo, qui agli esordi della sua carriera, nel 1734-1736 sarà il regista della campagna di
ridecorazione che Maddalena Doria Spinola volle attuare nel secondo piano
nobile di Palazzo Spinola e che culminerà con la realizzazione della Galleria degli Specchi.
Anche in questo dipinto è
rappresentata una metamorfosi: la
bella Io è stata
trasformata in una giovenca bianca da Giove per nasconderla alla gelosia della
moglie Giunone. Al centro c’è Argo, il pastore dai mille occhi - celati da una benda - al
quale Giunone aveva affidato la vitella perché
la tenesse lontana dal marito.
Mercurio, a destra, attraverso la melodia del flauto e il racconto del mito di Pan
e Siringa, riesce a far addormentare il custode per ucciderlo e liberare Io
dal suo controllo.
Il giovane in armatura sulla destra è Perseo, rappresentato mentre si sta
ristorando dopo aver salvato Andromeda, distesa a sinistra. La giovane era stata
sacrificata al mostro marino raffigurato, pietrificato, sotto di lei, come
punizione per la superbia della madre Cassiopea. Il dipinto narra anche
l’origine mitologica del corallo, nato dalle alghe inzuppate del sangue del mostro
e divenute di pietra a contatto con la testa della Medusa, raffigurata in basso
al centro. Le creature del mare che circondano Perseo e Andromeda giocano con i
coralli, gioiosamente stupiti di questa trasformazione.
La tela sancisce il passaggio di consegne dalla generazione
di Gregorio, di impronta barocca, a quella del figlio Lorenzo, contraddistinta
da modi più eleganti
e composti, tipici del Settecento.
La tela fa parte di una serie di dipinti dedicata al
celebre eroe mitologico. Insieme alle altre tre esposte accanto, adornava in
passato le sale di Palazzo Cattaneo Adorno (oggi Via Garibaldi), dimora in cui
erano presenti anche le altre monumentali rappresentazioni delle Metamorfosi,
acquisite contestualmente dalla Galleria Nazionale della Liguria.
Ercole è in questo caso raffigurato mentre supera la seconda delle
dodici prove cui era stato sottoposto per espiare la colpa di aver sterminato
la propria famiglia. Il mostro marino che sta per soccombere ai suoi piedi è l’Idra di Lerna, dotato di numerose teste
in grado di ricrescere. La pelle che indossa l’eroe è invece la prova del superamento della
prima fatica, ovvero la lotta contro il leone Nemeo.
In questa tela Ercole è impegnato mentre affronta la settima fatica. Egli sconfigge
un toro di enormi dimensioni capace di soffiare fuoco dalle narici che stava
infestando l’isola di Creta. Grazie alla sua forza straordinaria il semidio
riuscirà nell’impresa
di domare il mitico animale.
Come gli altri dipinti della medesima serie, anche questo
soggetto è stato
realizzato da Gregorio De Ferrari nella fase matura della sua attività, avviata
nella bottega di Domenico Fiasella, tra i più
rappresentativi maestri genovesi del
Seicento, e poi arricchita dalla conoscenza diretta della pittura del
Correggio. Le suggestioni emiliane sono state in questo caso impreziosite
da rimandi ai modi di Giovanni Benedetto Castiglione detto il Grechetto, altro
celebre protagonista della stagione barocca genovese.
Oltre al superamento delle dodici fatiche, Ercole dovette affrontare ulteriori prove, tra cui la lotta contro il gigante Anteo. Questi, figlio di Gea, dea della terra, era praticamente invulnerabile quando si trovava a contatto col suolo. Il semidio prima di sconfiggerlo fu quindi costretto a sollevarlo dall’origine della sua forza per poi stritolarlo.
Tutto lo sforzo dei due giganti in lotta è reso da Gregorio De Ferrari attraverso l’uso estremamente elaborato della luce con posture fortemente scorciate costruite attraverso pennellate veloci e incisive.
Con questa scena si conclude la vicenda terrena di Ercole: dopo un’intensa esistenza costellata di prove e fatiche, l’eroe trova la morte a causa della gelosia della moglie Deianira. Invidiosa delle attenzioni che il consorte aveva rivolto alla bella Iole, cosparse infatti la veste del semidio con un potente veleno ricavato dal sangue del centauro Nesso. Non appena indossata, la tunica provocò a Ercole dolori talmente forti da fargli desiderare la morte. È questo il momento raffigurato da Gregorio De Ferrari: Ercole si è appena gettato sul rogo funebre che si è costruito, mentre, sulla sinistra, Filottete, al quale il semidio aveva chiesto di accendere il fuoco, fugge spaventato.
Le dimensioni inferiori rispetto alle altre quattro tele dedicate a Ercole hanno fatto dubitare dell’appartenenza di quest’opera alla serie dedicata alle fatiche, anche se iconograficamente ne costituisce l’ideale conclusione. La tela raffigura, infatti, il lieto epilogo della storia dell’eroe, salvato dal padre Giove dal fuoco del rogo e accolto nell’Olimpo. Ercole sta per sposarsi con la dea dell’eterna giovinezza Ebe, vestita di blu, e unirsi agli dei immortali. In alto a sinistra Giove, con la corona, sembra rivolgersi al personaggio con il cappello piumato raffigurato nell’angolo: si tratta forse dell’autoritratto del pittore, che si volle inserire nella composizione in fattezze giovanili.
La scena mostra sulla destra l’antefatto: Ercole che corre via dilaniato dalla veste avvelenata e le tre Ore che lo attendono per accoglierlo nell’Olimpo.
Il dipinto è entrato a far parte del patrimonio della Galleria Nazionale della Liguria grazie alla generosa donazione da parte di un collezionista privato.
Il disegno si riferisce a un noto dipinto, oggi conservato in Gran Bretagna (National Trust di Wilthshire Wilthshire, National Trust), in cui Carlo Maratti, celebre esponente del barocco romano, è effigiato nell’atto di eseguire il ritratto del nobile Nicolò Maria Pallavicino. Quest’ultimo, ricco banchiere genovese stabilitosi a Roma, è rappresentato mentre sta entrando in Arcadia, accolto da Apollo e atteso dalle personificazioni delle Virtù. In questo modo, il committente voleva celebrare la propria nomina ad Accademico d’onore nella prestigiosa Accademia di San Luca, storica istituzione artistica. Egli era il cugino dei Pallavicino proprietari del Palazzo alla fine del Seicento, ai quali il disegno apparteneva. Documentato dalle fonti in questo edificio, nell’Ottocento venne venduto, ma l’acquisto del foglio da parte dello Stato nel 2000 ha permesso di esporlo nuovamente nella dimora dove storicamente si trovava.
Pittore di origini calabresi, Mattia Preti lavorò principalmente a Napoli e Roma e
concluse la sua vita a Malta.
La tela, assieme a quella con la Resurrezione di Lazzaro, fu dipinta probabilmente nel settimo
decennio del XVII secolo, durante il prolungato soggiorno del pittore nell’isola
mediterranea. Realizzati en pendant, i dipinti mostrano una profonda conoscenza
sia della cultura pittorica romana tra gli anni Trenta e Quaranta del Seicento,
nell’ambito della quale l’artista si formò, che delle nuove suggestioni
assimilate dal Preti in seguito alla sua attività
a Napoli.
Pittore di origini calabresi, Mattia Preti lavorò principalmente a Napoli e Roma e concluse la sua vita a Malta.
La tela, assieme a quella con l'Incontro di san Francesco e san Domenico, fu dipinta probabilmente nel settimo decennio del XVII secolo, durante il prolungato soggiorno del pittore nell’isola mediterranea. Realizzati en pendant, i dipinti mostrano una profonda conoscenza sia della cultura pittorica romana tra gli anni Trenta e Quaranta del Seicento, nell’ambito della quale l’artista si formò, che delle nuove suggestioni assimilate dal Preti in seguito alla sua attività a Napoli.
Denominate all’inizio dell’Ottocento “Les grandes têtes d’hommes coëffées àl’Orientale”, queste composizioni documentano l’attenzione rivolta dal pittore genovese nei confronti delle incisioni di Rembrandt van Rijn, da lui studiate a Roma in occasione di un soggiorno negli anni Trenta del XVII secolo.
Sono opere che nascono da una profonda riflessione da parte dell’autore sulle immagini incise dal maestro olandese, a partire dai suoi numerosi autoritratti sino alla serie di busti maschili vestiti con abiti orientali, realizzati secondo una moda che ottenne notevole fortuna ad Amsterdam, dove questi fantasiosi ritratti, noti con il termine tronie, ebbero un’ampia diffusione.
La serie è stata donata alla Galleria Nazionale della Liguria in memoria della storica dell’arte e docente Anna De Floriani.
Appartenente a una famiglia della nobiltà genovese, Giovanni Battista Paggi fu
costretto all’esilio nel 1581 perché colpevole di omicidio, benché
per legittima difesa. Dopo un
soggiorno ad Aulla e a Pisa, egli giunse a Firenze presso la corte di Francesco
I de Medici. Alla fine del 1590 il pittore ebbe la possibilità di rientrare a Genova, ma solo
all’interno delle residenze del principe Giovanni Andrea I Doria, suo
protettore, in quanto escluse dalla giurisdizione della Repubblica.
La Flagellazione, firmata e datata 1591, proviene
dalla villa fatta costruire da Andrea Doria fuori della città vecchia, dove probabilmente decorava
una delle cappelle fatte costruire da Giovanni Andrea e dalla consorte Zenobia
Del Carretto. L’opera rivela l’assimilazione da parte dell’artista genovese di
alcuni dei caratteri e dei modi della pittura fiorentina della fine del
Cinquecento.
La raffinata composizione, dipinta intorno al 1615, raffigura
un episodio della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, componimento
che ebbe una straordinaria fortuna nell’ambito della produzione pittorica e le
cui prime edizioni furono illustrate da immagini ideate dal genovese Bernardo
Castello. Anche nella biblioteca del Paggi, artista colto e aggiornato, si
trovava una copia del poema del Tasso.
Nell’opera, tra le più precoci raffigurazioni del soggetto letterario realizzate
in ambito locale, il guerriero Rinaldo è raffigurato mentre regge lo specchio alla bella Armida,
intenta ad acconciarsi i capelli, accompagnata da un putto con un mazzo di
fiori. Tra i cespugli a sinistra emergono i cavalieri crociati Guelfo e Ubaldo,
inviati nell’Isola della Fortuna per far rinsavire Rinaldo dal sortilegio
d’amore della maga Armida.
Il ruolo di Cornelis de Wael nell’ambiente culturale della Genova di primo Seicento non si limita alla sola produzione di dipinti. Egli fu, infatti, il punto di riferimento della folta schiera di artisti fiamminghi che volevano vendere le proprie opere in città. Sono gli anni in cui era attivo Antoon van Dyck, ma anche Jan Wildens e Jan Roos, maestri dediti alla cosiddetta “pittura di genere”. È in questa tipologia di opere che Cornelis eccelse, quella cioè che gli scrittori dell’epoca definivano “a figure piccole” e che raffiguravano affollate scene con nobili o popolani.
La tela risulta collegata a un’altra composizione raffigurante la Celebrazione eucaristica per i pellegrini, in cui, in corrispondenza del paesaggio, è stata ipotizzata la presenza della mano del fratello maggiore di Cornelis, Lucas de Wael. Le due rappresentazioni facevano parte di una serie di Esempi di virtù cappuccina realizzata da Cornelis durante l’attività a Genova, probabilmente nel corso degli anni quaranta del Seicento.
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