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Tortona, Piemonte, Italia chiuso visita il museoarrow_right_alt
Scultura, cera su gesso, compiuta da Medardo Rosso nel 1917 sul modello delle prime della stessa serie risalenti al 1883-1884. L’opera fa parte del cospicuo numero di varianti della Portinaia realizzate con la medesima tecnica. La nostra versione proviene dalla raccolta di Gustavo Sforni, raffinato collezionista e pittore dilettante che nel 1917 compra direttamente dall’autore tre opere, fra cui la nostra, La vendita di Portinaia è attestata da due missive di Sforni indirizzate a Rosso, una redatta nel dicembre del 1917 e l’altra nel febbraio del 1918.
Di daumieriana memoria nella sua umana verità, il profilo quasi grottesco della donna con il mento sprofondato nel petto, la Portinaia riesce però ad eluderne l’aneddoticità con un più audace trattamento della superficie, che si spezza e si ricompone nelle sfaccettature di un modellato pittorico di matrice scapigliata capace di renderla materia viva e palpitante, sfuggente allo sguardo del fruitore a cui appare ora fisionomia ora massa informe. Lo strato di cera, poggiato sul guscio cavo di gesso, funge da membrana duttile che sembra sciogliersi a contatto con l’atmosfera, imprigionando la sensazione di un attimo effimero di esistenza ancora in continuo divenire. Quella di Rosso è una visione ingenua, che volutamente ignora qualsivoglia canone estetico o conoscenza a priori per plasmare senza filtri una fugace impressione. Meglio del bronzo la cera, nell’uso peculiare che ne fa Rosso fin dagli esordi, permette quella compenetrazione fra figura e ambiente che inserisce l’artista fra i precursori del linguaggio contemporaneo alle soglie del Futurismo, fatalmente segnalato da Umberto Boccioni come “solo grande scultore moderno”. Opera di svolta, la Portinaia avvia il graduale superamento del naturalismo verso quell’astrazione che caratterizza gli sviluppi tardi della ricerca di Rosso, da Madame x (1896) a Ecce Puer (1906), dove ogni narrazione è respinta in favore di una sintesi ardita che riduce la fisicità a evocativo accenno poetico.
Nell’ottobre del 1906 Gino Severini arriva a Parigi. Non ha appoggi, padroneggia poco la lingua e non ha denaro, ma la sua permanenza in città è sostenuta da un entusiasmo tale da lenire le urgenti preoccupazioni di sussistenza quotidiana. Severini entra rapidamente in relazione con il brioso ambiente artistico e culturale parigino. Introdotto da Amedeo Modigliani comincia a frequentare il Lapine Agile, intessendo legami con i numerosi artisti e poeti che gravitavano intorno al famoso cabaret.
L’Autoritratto a pastello, affettuosamente dedicato sul fronte all’amico Baldo “uno fra pochi fratello nella lotta e nelle aspirazioni”, è corredato di datazione autografa al 1908 che si suppone
apposta in un secondo momento, contestualmente alla donazione a Baldo. Severini vi si rappresenta smagrito, con la sigaretta pendente all’angolo della bocca e lo sguardo indolente, in un tempo della sua vita in cui “le cose andavano piuttosto male, e anche la …. salute lasciava a desiderare”. Una condizione economica, fisica e psicologica, che accompagna i primi scorci del soggiorno parigino. L’aspetto di Severini nel nostro appare molto diverso da quelli dei precedenti tre autoritratti dove si rappresenta con tono elegante, assorto, brillante, sornione, sicuro e imperturbabile. Nel nostro, la fisionomia è abbozzata con gesto nervoso e sintetico, che rileva le luci con gialli gelidi e bianchi purissimi, individua i semitoni con aranci caldi e rosa impalpabili, definisce le ombre con verdi acidi e blu scuri. L’azzurro degli occhi malinconici risuona nell’accenno di giacca, rimbalzando sui capelli di carbone vibranti di prussia e cobalto. Attraversato da rade tracce d’ocra, lo sfondo neutro respira lo stesso umore mesto del viso, immergendolo in un’atmosfera dal sapore simbolista.
Firmatario nel 1910 del Manifesto dei pittori futuristi e del Manifesto tecnico della pittura futurista, Luigi Russolo è presente nel 1912 alla prima collettiva futurista parigina alla Galleria Bernheim-Jeune. Nel 1915 si arruola volontario in guerra. Nel dicembre del 1917 viene gravemente ferito alla testa, subendo un lungo ricovero. La ripresa dell’attività artistica dopo la tragica esperienza al fronte è guidata da un fermo proposito di revisione del processo analitico, scompositivo e dinamico, emblematico della fase futurista, in favore di una “larga, ampia e sintetica visione plastica”. Le prove degli anni Venti, quindi, sono caratterizzate dalla pennellata breve, spezzata, impetuosa e dai contrasti accesi e violenti propri delle tele futuriste e da un’inedita componente volumetrica su cui si innesta quella tensione emotiva e introspettiva più che mai evidente negli autoritratti. Nell’intera opera si riverbera poi il vivo sentimento di musicista votato alla sperimentazione, nonché vi aleggia l’interesse, sempre coltivato, per le scienze occulte e le filosofie orientali.
Autoritratto, databile tra il 1920 e il 1925, denota la predisposizione di Russolo alla resa grafica istantanea, senza ripensamenti, che ne ha determinato il successo come incisore. L’incrocio di segni, si esalta in un reticolo di rabbiose sferzate di carbone, sovrapposte alla più fluida tessitura pittorica di sanguigna e pastello per marcare le zone d’ombra e imbastire la chioma indisciplinata. Il trattamento veemente delle superfici individua una monocromia aspra, enfatizzata dall’interferenza disarmonica delle trame di matita nera e rossa che descrivono una fisionomia allucinata. Di lavorazione irruenta, scabra ed essenziale, il volto affilato e sofferente galleggia sul foglio come sospeso in un vuoto dell’anima. Lo sguardo ferocemente indagatore, alterato, sebbene fiero e attento, scruta se stesso con spietata sincerità, indugiando sulle orbite incavate e sulle rughe d’espressione, abbozzando il resto.
Sul retro dell’opera due schizzi a carboncino: un accenno di volto e un più completo studio di nudo, sostanziato da un disegno pittorico morbido e sinuoso che delicatamente accarezza le curve della modella.
Vallon à Volpedo si inserisce nell’ambito della cospicua produzione paesaggistica di Giuseppe Pellizza dei primi anni del Ventesimo secolo. Il dipinto è impostato sulla rossa chioma del castagno mossa dal vento, che organizza lo spazio cullando lo sguardo fra i morbidi declivi e il pianoro centrale per dirigerlo in profondità, dove si perde oltre il breve orizzonte. Una figuretta di contadina, china sul sentiero che a destra discende irregolare fra la vegetazione, è appena individuabile nell’ombra violacea, fusa nel paesaggio di cui è parte inscindibile così come le foglie e i rami, le rocce e gli arbusti, in pacifica armonia con il ciclico e inevitabile fluire delle stagioni. Pellizza sfrutta una tavolozza calda per ricreare le tinte seducenti di un ottobre avanzato, accese però dal freddo azzurro del cielo striato di nuvole bianche in un gioco audace di dissonanze. La pennellata franta punteggia la terra di trasparenze verdi e aranciate modulando gli effetti di controluce per simulare la vibrazione delle fronde, mentre in alto suggerisce i movimenti dell’aria frizzante con tacche lilla e turchine che si inseguono e si sovrappongono in un mosaico di chiarori palpitanti. Pellizza perviene nel dipinto all’agognata sintesi fra il solido assetto dell’insieme, meditato al vero con il costante esercizio del disegno, e l’assoluta mobilità delle luci, che non disfa i volumi ma li conferma, raggiunta con un divisionismo capace di superare ogni rigidità ed evocare un mondo lirico, sognante e incantato, di là dalle apparenze.
Umberto Boccioni conosce Gino Severini e inizia con lui a frequentare lo studio di Giacomo Balla, che trasmette agli allievi il suo incondizionato amore per la natura introducendoli alla pratica en plein air, fondamentale per cogliere al meglio le infinite varianti cromatiche e luminose offerte dal paesaggio in ogni stagione. In Gennaio a Padova, opera in cui la lezione di Balla è già arditamente rielaborata in chiave personale, il tessuto cromatico è strutturato in zone ad impasto vivificate da sovrapposizioni di tacche rade e grossolane di tinte pure e antinaturalistiche, che conferiscono all’insieme un sapore espressionista. Organizzata sulle diagonali delle vertiginose fughe prospettiche che si infrangono su una quinta di filari spogli e un solo casolare, stagliati contro il cielo gelido di pioggia, Gennaio a Padova restituisce un panorama dinamico e articolato, seppur totalmente disabitato, in cui lo sguardo non ha tregua, continuamente sollecitato a vagare tra fusti e rami ghiacciati di cobalto per smarrirsi nella vastità del campo d’ocra pullulante di blu e d’azzurro. La pennellata divisa, reiterata, veloce e briosa, è multiforme e mutevole, come predicava Pellizza, regolarizzata in trattini minuti nell’unica, lontana costruzione, dove il gioco di complementari si fa più audace.
A lungo disperso, noto attraverso una fotografia d’epoca rinvenuta nell’archivio del suo autore, il dipinto è incluso nel 1995 nel catalogo generale ragionato di Vittore Grubicy curato da Sergio Rebora, pubblicazione che rende possibile un proficuo confronto con le due versioni già inventariate negli Archivi del Divisionismo.
La nostra, conosciuta come A Fiumelatte dal sottopassaggio della ferrovia, datata 1887 - 1910, si discosta dalle gemelle per la presenza dell’imbocco della galleria, che costruisce una cornice asimmetrica d’ombra densa oltre cui si palesa il limpidissimo paesaggio, liberando lo sguardo sulla pacifica distesa del lago fino alla sponda opposta dove spiccano candide le imbarcazioni lontane. L’integrazione, di sicuro impatto, è frutto di un intervento successivo alla prima stesura, che ha ampliato la superficie con tre inserti di stoffa sui lati superiore, inferiore e destro, per includere la struttura dell’arco e una più ampia porzione di prato in basso.
La pratica del riesame e della rettifica è una peculiarità del Grubicy.
“Fissando una tela o un disegno da me tracciato anni addietro nel dato luogo, dopo brevi istanti riesco a ritrovarmi sullo stesso luogo e nello stesso momento in cui fui impressionato la prima volta; cosicché non faccio che proseguire a copiare quello che avevo visto e tracciato anni addietro in quel luogo”, non si tratta dunque di uno strafare; ma proprio di un intensificare; e i singoli apporti vanno ad inserirsi spontaneamente nell’organismo del quadro, perché non sono aggiunte ma sviluppi
In Fiumelatte dal sottopassaggio della Ferrovia la rigorosa semplicità della composizione, equilibrata per mezzo del felice accordo dell’alto orizzonte con la curva regolare dell’arcata e la linea serpentinata dell’esile fusto verdeggiante, è mitigata del tipico divisionismo grubiciano, che intesse una fitta trama cromatica di minute pennellate abile a plasmare una luminosità eterea dai riverberi rosati. La forma si disgrega in una vibrazione pulviscolare, e la veduta assume la consistenza astratta di un sogno, di una memoria sopravvissuta all’oblio. Borgo fra Lierna e Varenna il cui nome deriva dal torrente che lo attraversa - impetuoso come una bianca cascata - Fiumelatte è una località molto amata da Grubicy.
La tela è appartenuta a Pompeo Rivalta, medico di Grubicy, cui è destinata la dedica sul fronte. Come testimonia il carteggio intercorso fra i due dal 1911 al 1920, anno della morte del pittore, Grubicy è legato a Rivalta da un rapporto di stima e amicizia, coronato sovente dal dono di opere d’arte, sue e di altri, che progressivamente ne arricchiscono la personale collezione.
Esposto alla prima personale di Sexto Canegallo allestita nell’aprile del 1920 presso il foyer del Teatro Argentina di Roma, il dipinto appartiene alla serie intitolata “Psicologia d’ambiente”, ed è descritto in catalogo come un “Panorama di paesaggio industriale con ponte e corso d’acqua, ed interno di officina siderurgica completato da effetti di lampade elettriche ad arco. Riassunto di vibrazioni vive e veloci”.
Vibrante racconta la fervida attività di una fabbrica attraverso un suggestivo gioco di interno ed esterno di sapore surreale, enfatizzato dalla presenza di piccoli accadimenti che si dipanano nella fascia inferiore della tela a partire dalla coppia di operai emergente all’estrema destra tra bagliori infuocati e ombre vigorose, intenta nei pressi di un calderone da cui fuoriesce una materia luminosa e tremolante di alchemica memoria: in basso sagome scure sostano davanti ai crogiuoli palpitanti, sparsi ovunque, mentre una fila di quattro figurette trainano un pesante carico, creando un diversivo di diagonali, e altre sono riunite in un capannello compatto, riportando stabilità. L’impianto orizzontale è rimarcato dal tratteggio della pennellata che alterna con regolarità i colori primari sovrapponendosi a uomini e cose, allo scenario di costruzioni severe rischiarate d’ocra e all’alta recinzione che scorcia in lontananza. Una sequenza di elementi puntiformi brillanti, irraggiati come soli, scandiscono il ritmo della composizione simulando l’incanto di una notte stellata artificiale.
L’avanguardistica concezione di Canegallo si inserisce in un percorso cha dal Neoimpressionismo conduce al Futurismo transitando per il Simbolismo, la geometrizzazione totalizzante ingloba le ragioni della luce, della forma e del colore, la linea non disgrega la massa nel moto, ma agisce come un’interferenza superficiale capace di individuare uno spazio incorporeo, mentale.
Nell’opera è percepibile, sorretto dalla vitalità di un divisionismo ancora fremente di calore ed energia, il gusto di Canegallo per la narrazione.
Il dipinto è uno dei più rilevanti fra
quelli ad oggi noti di Pietro Mangarini - pittore molto attivo nel panorama
romano. Datato 1906, Il vaso turchino
mette in scena un interno borghese in cui siede una graziosa figura femminile, appoggiata
ad un tavolo apparecchiato per la colazione. Le due tazze da tè e l’accenno di
una seggiola vuota fanno pensare ad un commensale che si è da poco allontanato,
lasciando la donna ai suoi pensieri, o forse alle sue letture. Colta di tre
quarti, con la bella testa reclinata e il braccio sollevato a coprire il busto,
la giovane ha la leggerezza di un’apparizione nel tenue controluce della
veranda allagata da un chiarore diafano. All’incorporea fanciulla, isolata
sulla sinistra davanti allo sfondo monocromo, tremolante di materia biaccosa capace
di risaltare la soffice acconciatura viola e le piccole labbra rosse, risponde
il ricco comparto di destra, dove l’abbondanza decorativa si estende dal motivo
a sinuose geometrie floreali della tovaglia alle foglie stilizzate dell’albero
esile oltre la vetrata aperta, intessendo un sofisticato scambio fra naturale e
artificiale peculiare del linguaggio liberty. La tavolozza è giocata sulle
tonalità fredde che declinano ogni sfumatura del turchese, del malva e del
cobalto digradando fino al bianco, e tutte si condensano nel rialzo cromatico
del vaso, svettante dall’esatto centro della composizione ad accogliere fiori dalle
corolle gonfie spruzzate di giallo, unica nota calda, in un contrasto d’intenso
effetto luminoso.
In contatto con il fervente ambiente di
artisti e intellettuali che al principio del secolo animano Genova e l’intera
Liguria aprendola alle recenti novità nazionali ed estere, Cornelio Geranzani
si avvicina al Divisionismo intorno al 1907 subito giungendo ad esiti originali.
Negli anni immediatamente successivi Geranzani conduce il suo divisionismo
nella direzione dell’astrazione geometrica caratterizzandola con un grossolano
puntinismo che diventa progressivamente puro codice decorativo, in un insieme
pittorico ormai ridotto a mosaico bidimensionale. Il lumino, ascrivibile al 1910 è uno dei maggiori risultati di
questa prima produzione ancora legata al Divisionismo, che dal 1916 l’artista tralascia
per un ritorno alla volumetria prossima al Novecento. Il dipinto tenta un’imitazione
dei fenomeni di propagazione della luce elettrica in un contesto urbano. Perno
della composizione è la circonferenza della lanterna accesa, dalla quale la
trama dei segni si diparte con andamento centrifugo ad invadere la superficie
della tela simulando l’espansione dei fasci luminosi. Il rigore strutturale,
coadiuvato dalla scelta di una veduta intrinsecamente regolare e la sintesi
cromatica, abile a esaltare le potenzialità dell’accostamento dei colori primari,
fanno de Il lampione uno dei
capisaldi della pittura del genovese, che perviene ad una visione al contempo
razionale ed espressionisticamente impattante.
Il dipinto è databile intorno al 1916. Strutturata su direttrici essenziali, la composizione è abilmente progettata per creare una spazialità ristretta che confina la solitaria figura femminile in una sorta di prigione, reale e metaforica. La donna funge da raccordo fra interno ed esterno. Stagliato in controluce il profilo della giovane, incorniciato dall’austera pettinatura raccolta, comunica la struggente malinconia di una quotidianità casalinga consumata nell’attesa prolungata di un ritorno che forse non avverrà. Il tema di un desiderato rientro degli uomini impegnati al fronte, è qui affrancato da sentimentalismi ed eccessi retorici, sostenuto invece da una semplificazione oggettivante che si appoggia ad un disegno rigoroso. La schematizzazione geometrica, esasperata dal robusto reticolo dei serramenti, è peraltro mitigata dall’impianto cromatico, che utilizza al meglio le potenzialità di un divisionismo libero e intuitivo. Con La lunga attesa Guerello recupera la tensione introspettiva che lo qualifica valente ritrattista.
Motivo medioevale risale ad un periodo intermedio dell’attività dell’artista, una fase matura in cui, assimilato ed elaborato in chiave personale il modello ranzoniano e cremoniano, tralascia il vero in favore di contenuti di genere letterario densi di lirismo, d’atmosfera visionaria e nostalgica, contraddistinti da un uso spregiudicato del colore e del segno non distante dalle coeve sperimentazioni di Gaetano Previati, con il quale fino al 1885 divide l’atelier milanese di Corso Venezia procedendo in significativa comunanza d’intenti. Impostato sulla struttura inclinata del fusto a sinistra, sotto le cui fronde una fanciulla seduta intrattiene un gruppo di lieti giovani accompagnando il vivace racconto con ampi gesti delle braccia delicate, il dipinto gioca su contrasti complementari capaci di irradiare di luce l’intera superficie. Alla nota violacea, che domina l’albero e le vesti delle ragazze in ascolto, si oppone il giallo vibrante, punteggiato di bianco, del campo inondato di sole, mentre dal verde dell’erba di filamenti sottili, che riposa nella penombra, spicca il rosso degli abiti e dei cappelli dei paggi. Soluzioni non lontane da quelle impiegate in N. 317 della Galleria d’Arte Moderna di Milano, in mostra alla prima Triennale di Brera del 1891 e aspramente criticato per la crudezza dell’argomento affrontato senza nessun pietismo - due orfani davanti a una tomba - e per l’approssimazione della pittura tale da sembrare ancora allo stato embrionale. Se la pennellata del prato di N.317, esile e franta, è paragonabile a quella utilizzata ne I novellieri, in quest’ultimo la sintesi formale e cromatica è però ben più estrema, a restituire non già un’immagine reale quanto l’inconsistenza di un’apparizione della mente, enfatizzata dalle pose languide e dalle movenze lente delle figure, leggiadre e vaghe come illusioni emergenti da un remoto e idilliaco passato.
Il pastello è uno dei cartoni finali per la Crocifissione realizzata nel 1897 da Emilio Longoni nella cappella Piatti del cimitero di Velate Vecchio di Varese. Colpiscono nell’imponente affresco longoniano le splendide figure di Maria di Nazareth, Maria di Cleofa e Maria Maddalena, rappresentate ai piedi della croce secondo il racconto del Vangelo di Giovanni. Le tre donne sono eseguite con la tensione naturalistica che contraddistingue l’orientamento coevo del pittore – a quell’epoca ancora dedito a tematiche sociali prima della svolta paesaggistica di fine secolo. Se Maria madre di Gesù e Maria di Cleofa, compostamente inginocchiate e chiuse negli austeri manti scuri che celano il corpo, sono caratterizzate dalla mimica dolente dei visi, Maria Maddalena, abbandonata a terra nella sobria veste chiara, con la lunga chioma d’oro disfatta, nasconde il volto quasi per intero, lasciando che sia la drammatica posa a parlare del suo strazio.
Tra i numerosi studi preparatori per la Crocifissione spiccano i tre pastelli per le singole Marie esposti alla Terza Triennale di Brera del 1897, che riscuotono grande successo di critica e pubblico. Lo stesso Longoni menziona le opere nelle concise note biografiche, rimarcando il valore personale della sua ricerca anche in ambito religioso e rivendicando un’autonomia interpretativa non sottomessa a vincoli iconografici di sorta: “Ho in commissione una crocifissione per una Cappella mortuaria. Piacciono “le Marie”. Pare però che io non sia riuscito a trasfondere in loro una idealità mistica, poiché ai Sacerdoti non piacciono. Il loro dolore è troppo umano. (Lezioni di Arte liturgica datemi da un Sacerdote, che io trovo giuste, ma non corrispondono al mio sentimento)”.
Fra i più alti raggiungimenti della produzione in campo grafico dell’artista, il pastello per Maria Maddalena ai piedi della croce differisce dalla trasposizione ad affresco per il diffuso impiego di un filamento divisionista, di matrice previatesca, che informa l’etereo sfondo d’erba e di cielo.
Altre opere esposte
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