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Milano, Lombardia, Italia chiuso visita il museoarrow_right_alt
La donna in poltrona è una recente nuova acquisizione del Museo dei Cappuccini insieme alle opere in deposito permanente della collezione Rusconi.
Il dipinto fa parte di uno dei numerosi esempi di questo soggetto eseguito da Umberto Boccioni negli anni in cui le sue muse ispiratrici erano le donne importanti della sua vita: la madre Cecilia, la sorella Raffaella Amalia, la cugina Adriana Bisi Fabbri e Ines, la donna amata.
L’opera fa parte della prima produzione dell’artista che, giunto a Milano nel 1907, venne in contatto con diversi artisti, e che nel 1909 sentì il desiderio di avvicinarsi a quelle figure più all’avanguardia e sperimentatrici. Volle infatti conoscere coloro che avevano già aderito al neonato Movimento Futurista, del quale egli stesso avrebbe poi fatto parte. Tra questi vi era il poeta Luciano Folgore che Boccioni volle omaggiare inviandogli proprio la sua opera, sul retro della quale, anziché scrivere una dedica e di inviarla con un biglietto di accompagnamento, tracciò rapidamente un ritratto in forma di caricatura di Folgore stesso.
L'opera proviene dalla proprietà della famiglia di Luciano Folgore e, nella parte superiore del retro su cui Boccioni tracciò la caricatura, la vedova del pittore, Valentina Folgore, ne descrisse la curiosa vicenda: “Io sottoscritta Valentina Folgore dichiaro che il dipinto ad olio sul retro di questo cartone dove è disegnato ad acquarello la caricatura di Luciano Folgore è eseguita da Boccioni, appartenuta a Luciano Folgore che lo aveva avuto in dono da Boccioni stesso. Valentina Folgore”.
Nella realizzazione della donna in poltrona Boccioni si pone già come sperimentatore della luce e del movimento, nel dipingere una figura in cui alcuni tratti risultano indefiniti (l’espressione e la fisionomia del volto) forse memoria e ripresa di passati caratteri impressionisti, mentre con una chiarezza estrema tratta la posa plastica e rapida di accavallare le gambe.
Periferia di Mario Sironi è entrata a far parte del patrimonio del Museo dei Cappuccini di Milano con la Collezione Rusconi nel 2019.
Gli anni in cui Sironi realizza i Paesaggi urbani sono quelli immediatamente dopo la Prima Guerra Mondiale. Sono anni che vedono l’artista
impegnato a dipingere molte periferie di Milano, città in cui si trasferì
stabilmente nel 1919.
Milano gli provoca “ribrezzo” come lui stesso scrive alla moglie
Matilde, ma al tempo stesso ha l’esigenza di riportarne nei suoi dipinti la
monumentalità e la gloria, dipingendone l’architettura dell’epoca a lui contemporanea. I Paesaggi urbani rappresentano metaforicamente la volontà del ricostruire dopo il conflitto mondiale, sia in senso concreto che ideale. C’è
bisogno di corposità, di materia, ed è per questo che non è la città il soggetto del
dipinto ma le sue architetture, le forme e la solidità che esprimono e poi si
contrappongono alla “tragicità” degli ulteriori elementi del dipinto. Forse per questo i
suoi palazzi, le sue città necessitano di stabilità e di armonia, di liberarsi
da ogni orpello per arrivare alla sintesi.
La città di Sironi è una incredibile semplificazione delle forme
che coniuga la firmitas classica con
uno stile moderno e ispirata dalle lezioni dell’architettura razionalista di
Aldo Rossi.
Il 1922 vide Sironi essere una delle anime del neonato gruppo artistico del Novecento, sostenuto da Margherita Sarfatti. La “moderna classicità” costruita secondo armoniche proporzioni e il dipingere le cose immobilizzarle nell’eternità, secondo le suggestioni platoniche e idealiste dell’epoca, vengono trasportate con un certo rigore nella serie dei Paesaggi urbani.
Le forme della periferia della collezione Rusconi hanno un
andamento verticale, gli incombenti palazzi laterali sono una scenografia che
si apre, lasciando spazio in posizione centrale a una ciminiera che con la sua
altezza crea una linea verticale nel quadro, proseguita da due personaggi senza
identità e senza volto che si trovano nella parte bassa.
I volumi dei palazzi
sono sbozzati come sculture e forti, i toni sono quelli dei grigi.
L'opera Palazzo Ducale è un dipinto a olio su tavola di compensato datato al 1947 realizzato da Luigi Filippo Tibertelli, che aveva assunto lo pseudonimo di Filippo de Pisis e che si trovava in quegli anni a soggiornare a Venezia dopo aver lasciato Milano a seguito dei primi bombardamenti dell'agosto del 1943. La tavola è firmata in basso a destra.
A Venezia de Pisis, nel gennaio dello stesso anno aveva acquistato un palazzetto in san Sebastiano dove prese dimora l'anno successivo. Questo dipinto si colloca in un periodo fecondo, in cui il maestro si dedicò alla ripresa all'aperto di numerosi scorci della città, tra i quali appunto la vista di Palazzo Ducale, presentato nella sua facciata meridionale, verso il bacino di san Marco con la presenza davanti della colonna di San Marco, di cui restituisce, con corpose pennellate, la statua del leone alato.
In basso è il susseguirsi delle arcate del porticato al piano terra del palazzo, mente in fondo si scorge il ponte della Paglia su cui si muovono numerose figure, tracciate con piccoli e rapidi tocchi di colore, e che conferiscono al dipinto particolare vivacità.
Il dipinto di Carlo Carrà, Marina con vela ripropone il soggetto di paesaggio che per il pittore alessandrino originario di Quargnento era divenuto molto frequente a partire soprattutto dal terzo decennio del secolo scorso. L'opera, di medie dimensioni, reca la firma dell'artista posta in basso a sinistra, inserita semi nascosta tra la vegetazione e come di consueto dalle sole iniziali del nome, la "C" di Carlo e il cognome scritto in stampatello e sottolineato.
Datato 1945, questo paesaggio marino era particolarmente amato dal collezionista Giancarlo Rusconi che ne apprezzava la vitalità espressa nel movimento delle vele, tanto distante dai primi dipinti di natura Carrà negli anni Venti. E' proprio nell'inclinazione delle vele che cogliamo la natura immortalata in un giorno di mare mosso, che spumeggia presso i rilievi della costa, e di cui si colgono i freschi spruzzi in primo piano presso il lembo di terra che separa l'osservatore dal mare.
Il dipinto è confluito nel patrimonio artistico dei Beni Culturali Cappuccini nel 1968 a seguito del lascito Ferrandi, ed è esposto al secondo piano del Museo dei Cappuccini. Il luogo ritratto è il Giardino alla Colma, il giardino della casa di famiglia a Colma di Rosignano, nel Monferrato, in cui l’artista alternava la sua residenza con Milano.
Il giardino era un luogo privilegiato di sperimentazione di una pittura en plein air di ricerca di una maggiore verità di luce, di colore e di ombre muovendosi all’interno del fenomeno artistico divisionista che oltre a Morbelli stesso, vedeva tra i suoi esponenti Segantini, Pellizza da Volpedo e Previati.
Dopo qualche sperimentazione negli anni 1880-1890, Morbelli incrementa la produzione di “paesaggi puri” a partire dal 1909. Sono paesaggi senza figure ma con elementi di scansione geometrica dello spazio (panche, arbusti sagomati, terrazzamenti) che danno coordinate strutturali e cromaticamente di rilevante contrasto luminoso. Il Giardino alla Colma, insieme ad altri dipinti cronologicamente vicini, (Angolo di Giardino, 1910, Collezione Giannone di Novara e Angolo di giardino, 1912, Musei Civici di Roma) offre un esempio di forte luminosità tradotta in una vibrante tessitura di colori, per la cui esecuzione ormai da tempo Morbelli aveva adottato una serie di pennelli di diversa consistenza e diversa fattura. A tali pennelli, infatti, sforbiciava le punte delle setole per ottenere effetti di striatura più regolari, mentre al contempo graffiava anche la superficie con una specie di pennello a punte rigide per esaltare il contrasto fra i colori.
Elemento portante della composizione è l’equilibrarsi di ritmi orizzontali con l’albero che sta a destra. Il divisionismo sapientemente applicato a piccole linee nel sentiero del giardino diventa picchiettatura sottile nella linea dei colli all’orizzonte, ottenendo così un vibrare di luci calde e fredde elegantemente decorativo.
Il Museo dei Cappuccini espone fin dalla sua apertura un prezioso disegno di Camillo Procaccini strettamente legato alla pala d’altare dell’antica chiesa milanese dell’Immacolata Concezione, quella del convento di Porta Orientale.
Le notizie riguardanti la provenienza del disegno risalgono al XIX secolo quando un membro della nobile famiglia Pezzoli lo donò ai frati Cappuccini, da sempre fermi sostenitori dell’Immacolata Concezione di Maria sancita da papa Pio IX con un dogma l’8 dicembre 1854. È probabile quindi che Pezzoli la donò in quella circostanza ai frati Cappuccini.
L’opera, che appare come un collage composto di almeno tre parti ritagliate e incollate su cartone, per l’accuratezza della fattura e la precisione di molti dettagli è da considerarsi come opera autonoma in stretta relazione con la pala d’altare che Procaccini realizzò per la chiesa dell’Immacolata Concezione. “La tavola sull’Altare in Pittura, in cui mirasi Nostra Signora in mezzo à numerosa comitiva d’Angeli, calcando anch’essa un serpente con San Francesco nell’alto diritto, colorì Camillo Procaccini”, così Carlo Torre descrive la pala d’altare del Convento di Porta Orientale nella sua guida Ritratto di Milano, nel 1714.
Questa chiesa fu soppressa e distrutta nel 1810. Molte sue opere furono disperse ma oggi si considera che la pala sia identificabile in quella conservata nella chiesa di Ognissanti in San Giorgio a Bergamo.
L’opera presenta una rara soluzione iconografica dell’Immacolata Concezione: circondata da una gloria celeste (con la Trinità e gli angeli suddivisi in schiere, caratterizzati straordinariamente con riferimenti iconografici che si rifanno al testo biblico), con una corona di dodici stelle ma senza la luna sotto i suoi piedi, la Vergine schiaccia il drago (che ha una sola testa invece le sette descritte nel libro dell’Apocalisse). Presso di lei san Francesco con l’abito cappuccino, inginocchiato, le offre un giglio tra le spine (lilium inter spinas: citazione dal Cantico dei Cantici che descrive l’elezione dell’amata, divenuta immagine di Maria). Nel cartiglio che avvolge il ramo di gigli e spine si legge “Sic Tu Mater Nostra” quale conferma che la Vergine Maria è, come l’amata del Cantico dei Cantici, un giglio tra le spine, scelta tra tutte le donne.
Un importante pezzo del Museo dei Cappuccini di Milano è il Velo della Veronica coerentemente attribuita al Guercino, pittore emiliano attivo nel Seicento.
L’opera raffigura il volto della Passione di Cristo impresso su un panno, una iconografia che inizia a svilupparsi nell’ambito della pittura nordica, che lo rappresenta come immagine estatica così da renderla effige devozionale per eccellenza. In Italia questo motivo si diffonde a partire dalla fine del XV secolo, grazie alla presenza di alcuni illustri esempi fiamminghi, che sperimentarono con un certo successo questa formula iconografica.
La tela si inserisce a pieno titolo all'interno della tradizione iconografica legata alla santa reliquia del Velo della Veronica, panno su cui si impresse il volto di Cristo sulla via del Calvario. I riflettori si puntano sul volto sofferente di Cristo, costruendone attentamente i tratti somatici, i capelli ondulati e la nodosa corona di spine.
Il riferimento a Guercino è giustificabile in termini formali, data la tipologia del volto, la stesura smaltata, carica di luci calde e chiaroscurate e l'interpretazione del soggetto in termini estatici e addolciti. Coerente con gli standard raggiunti dal pittore è infine la qualità elevata dell'opera, dove il virtuosismo dell'esecuzione e la capacità di indagine stilistica e mentale offrono un esito di grande suggestione.
Gustav Adolf Amberger, di cui non si sa molto della sua vita, fa parte di quei giovani artisti che partirono per il Grand Tour, il giro delle principali città e zone di interesse artistico e culturale considerato una parte essenziale per l'educazione artistica tra il XVIII e il XIX secolo. Meta fondamentale del viaggio era l'Italia, con le sue città d'arte, le collezioni d'arte e antiquariato e i resti archeologici recentemente portati alla luce.
Il pittore tedesco, durante il soggiorno in Italia e in particolare in Sicilia, riproduce su tela, che firma in basso a sinistra, la veduta delle rovine dell'antico teatro greco di Taormina così come si presentava nella seconda metà dell'Ottocento, lasciando visibile nello sfondo la costa Jonica da una parte e la cima fumante dell'Etna dall'altra.
Sebbene il teatro sia abbandonato e se ne riconoscano appena le rovine, con colonne ed elementi strutturali ammassati al suolo e in parte coperti dalla vegetazione, la posizione splendida e certamente unica aveva reso, per gli artisti romantici, questo luogo uno dei prediletti appunto del Grand Tour.
E' questo ancora il tipico paesaggio romantico, in cui è la natura che domina, con qualche segno dell'antichità gloriosa e poche figure umane. Sulla destra si vedono in bambino sdraiato sull'erba, una donna con l'abito tradizionale e un cestino, e infine un uomo ben accomodato sul prato. Vicini, rivolti verso il teatro e oltre verso il mare, essi contemplano il paesaggio lasciando che noi, osservatori esterni, ne percepiamo la grandiosa bellezza.
Il Frate con la tabacchiera è una tela di medie dimensioni presente nella collezione del Museo dei Cappuccini fin dalla sua apertura.
Tra le opere del Museo dei Cappuccini questo Frate con la tabacchiera è un classica immagine del frate Cappuccino dalla lunga barba, solo nella sua stanza, seduto su uno sgabello di legno presso un braciere, chiuso nel suo mantello. Una rappresentazione che ci spinge a ricercare gli usi della vita cappuccina che, fin dalle origini, era austera e semplice e che permetteva piccole concessioni quali, appunto, il tabacco.
Il nostro frate cappuccino, compreso nei suoi pensieri, ha infatti tra le dita una presa di tabacco che si considerava avesse poteri terapeutici e che quindi, in dosi misurate, poteva essere consumato. Si tratta di un piccolo dipinto che potrebbe inserirsi in un gruppo più ampio di opere realizzate da Teofilo Patini tra ottavo e nono decennio dell’Ottocento, quando era venuto in contatto con certi ambienti massonici che gli avevano procurato commissioni anche ecclesiastiche. Pare però che il suo interesse per l’ambiente del convento e le figure di alcuni frati Cappuccini, sia declinato con una certa critica a quel mondo.
Quello che è certo, invece, è che Teofilo Patini, si esprime con il linguaggio simbolista della fine del secolo per descrivere il realismo delle sue opere.
Il San Francesco d'Assisi in estasi di Ortensio Crespi è un importante esempio della pittura del Seicento lombardo. La tela, inizialmente attribuita al Cerano (Giovanni Battista Crespi) è stata ricondotta successivamente a suo fratello minore, Ortensio Crespi, per lo stile più indipendente e originale, in genere contraddistinto da preziosità materica e da una spiccata sensibilità naturalistica, di matrice nordica.
Con una fattura sciolta e sperimentata e nella cromia fluida, fredda e perlacea, il santo di Assisi è raffigurato in preghiera a mani giunte e dita intrecciate, inginocchiato presso un libro (il Vangelo, ma anche immagine della Regola dell’ordine dei Frati Minori), appoggiato ad un teschio. La figura del Santo in preghiera estatica è immersa in un paesaggio dai caratteri nordici che intende evocare le foreste casentinesi, in particolare il monte della Verna dove san Francesco amava ritirarsi in preghiera.
San Francesco è vestito di un ruvido saio dalla foggia cappuccina (un pezzo solo con il cappuccio, e le evidenti toppe). Il dato particolare del chiodo che esce dal dorso della mano destra del Santo riprende in maniera realistica la descrizione dell’impressione delle stimmate data dai suoi biografi.
Il teschio, anacronistico per san Francesco ma rispondente alla spiritualità del Seicento, è uno dei più diffusi attributi iconografici dei santi penitenti. Indica la caducità delle cose terrene e l’importanza di tendere ai valori eterni.
L’Annunciazione composta dalle due tele dell’Angelo annunciante e della Madonna annunciata sono una delle più interessanti acquisizioni del Museo dei Cappuccini. Entrate nell’allestimento del Museo nel 2017, provengono dall’attuale convento dei Frati Minori Cappuccini di Brescia, lì giunte dall’originaria collocazione: la chiesa del secondo convento cappuccino bresciano, dedicata ai Santi Pietro e Marcellino. Le due tele facevano parte dell’apparato decorativo della chiesa consacrata nel 1601 e portata a termine nel 1614. Alla decorazione avevano concorso alcuni tra i più importanti pittori locali; Jacopo Palma è tra questi artisti, e a lui si devono diverse opere tra le quali, appunto, una Annunciazione composta da due tele collocate sul tramezzo del coro ai lati della pala d’altare.
Non vi sono dubbi per l’attribuzione oltre che per la firma, […] COBVS PALMA. P., -apposta in basso a sinistra nella tela della Madonna Annunciata-, anche da alcuni tipici tratti stilistici e tecnici che contraddistinguevano la sua bottega. Tra questi, l’impiego di una tela ad andatura diagonale, visibile ad occhio nudo in vari punti (gli incarnati nelle mani della Vergine o nel volto dell’Angelo) o l’uso di particolari pigmenti come il lapislazzuli con cui sono state dipinte molte parti di blu.
Il soggetto dell’Annunciazione è uno dei più visitati. È con i grandi dipinti (Scuola Grande di San Teodoro a Venezia) che le due tele hanno in comune i dati stilistici. Diversamente una certa vicinanza compositiva, per quanto riguarda la sola figura dell’angelo si riscontra in opere successive come l’Annunciazione veneziana di S. Maria dei Derelitti del 1615 circa, e ancor di più con la pala d’altare del duomo di Salò (Brescia) del 1628: simile è la postura dell’angelo che similmente incrocia la gamba avanzante e regge con la mano sinistra il ramo di giglio fiorito.
Proprio per l’angelo si può trovare chiaro riferimento in un disegno conservato al Museo Correr di Venezia: caratterizzato dai calzari preziosi con rifiniture in oro e testa di cherubino, dall’abito con larga fascia al petto, dalla spilla che chiude lo spacco delle vesti. Il gesto di benedizione (traduzione del saluto dell’angelo a Maria), lo rende una figura di estrema delicatezza, combinato con una dolce espressione resa con un lieve sorriso ad occhi abbassati.
Nel medesimo foglio sono presenti due studi per l’Angelo annunciante e due prove per la Vergine Maria. Il volto della Vergine deriva dallo stesso cartone con cui è stata realizzata la Madonna della pala d’altare già nella chiesa dei Cappuccini di Gargnano. È assai interessante la ripresa in controparte rispetto alla pala che oggi è conservata in deposito esterno presso la chiesa di S. Marco a Milano (giunta in epoca napoleonica come requisizione per la nascente pinacoteca di Brera).
L’Annunciazione composta dalle due tele dell’Angelo annunciante e della Madonna annunciata sono una delle più interessanti acquisizioni del Museo dei Cappuccini. Entrate nell’allestimento del Museo nel 2017, provengono dall’attuale convento dei Frati Minori Cappuccini di Brescia, lì giunte dall’originaria collocazione: la chiesa del secondo convento cappuccino bresciano, dedicata ai Santi Pietro e Marcellino. Le due tele facevano parte dell’apparato decorativo della chiesa consacrata nel 1601 e portata a termine nel 1614. Alla decorazione avevano concorso alcuni tra i più importanti pittori locali; Jacopo Palma è tra questi artisti, e a lui si devono diverse opere tra le quali, appunto, una Annunciazione composta da due tele collocate sul tramezzo del coro ai lati della pala d’altare.
Non vi sono dubbi per l’attribuzione oltre che per la firma, […] COBVS PALMA. P., -apposta in basso a sinistra nella tela della Madonna Annunciata-, anche da alcuni tipici tratti stilistici e tecnici che contraddistinguevano la sua bottega. Tra questi, l’impiego di una tela ad andatura diagonale, visibile ad occhio nudo in vari punti (gli incarnati nelle mani della Vergine o nel volto dell’Angelo) o l’uso di particolari pigmenti come il lapislazzuli con cui sono state dipinte molte parti di blu.
Il soggetto dell’Annunciazione è uno dei più visitati. È con i grandi dipinti (Scuola Grande di San Teodoro a Venezia) che le due tele hanno in comune i dati stilistici. Diversamente una certa vicinanza compositiva, per quanto riguarda la sola figura dell’angelo si riscontra in opere successive come l’Annunciazione veneziana di S. Maria dei Derelitti del 1615 circa, e ancor di più con la pala d’altare del duomo di Salò (Brescia) del 1628: simile è la postura dell’angelo che similmente incrocia la gamba avanzante e regge con la mano sinistra il ramo di giglio fiorito.
Proprio per l’angelo si può trovare chiaro riferimento in un disegno conservato al Museo Correr di Venezia: caratterizzato dai calzari preziosi con rifiniture in oro e testa di cherubino, dall’abito con larga fascia al petto, dalla spilla che chiude lo spacco delle vesti. Il gesto di benedizione (traduzione del saluto dell’angelo a Maria), lo rende una figura di estrema delicatezza, combinato con una dolce espressione resa con un lieve sorriso ad occhi abbassati.
Nel medesimo foglio sono presenti due studi per l’Angelo annunciante e due prove per la Vergine Maria. Il volto della Vergine deriva dallo stesso cartone con cui è stata realizzata la Madonna della pala d’altare già nella chiesa dei Cappuccini di Gargnano. È assai interessante la ripresa in controparte rispetto alla pala che oggi è conservata in deposito esterno presso la chiesa di S. Marco a Milano (giunta in epoca napoleonica come requisizione per la nascente pinacoteca di Brera).
Ugo Gheduzzi si consacra nel patrimonio artistico italiano partecipando alla mostra internazionale di Roma (1883, Dintorni di Belluno), alla Triennale di Milano (1894, Il ritorno dal lavoro), alla Rassegna di Bologna (1888, Campagna Bolognese, acquistato da re Umberto I per le collezioni reali) e vincendo la medaglia d’oro con un dipinto all’Esposizione di Palermo (1888, Pietra di paragone).
In seguito l’artista elegge come suo unico eroe la figura del contadino, stimato nelle vesti dell’autentico salvatore dalla corruzione del mondo contemporaneo, emblema della fuga dalla condizione inumana della vita cittadina e L’aratura ne è un magnifico esempio.
Nel dipinto, l’autore non distrae dal rispetto per la dura e quotidiana fatica del lavoro nei campi e avverte una sorta di pudico timore che impedisce di cogliere i lineamenti delle persone. La pennellata densa, il colore smaltato, la violenta diagonale che separa in modo clamoroso l’ombra e la luce in primo piano, e le forme geometrizzanti degli alberi e dei campi sullo sfondo, raccolgono l’occhio delle spettatore e lo conducono verso l’orizzonte lontano.
La tela in cui vi è santa Chiara d'Assisi rapita dalla visione di san Francesco fu realizzata da Giuseppe Nuvolone intorno al 1660 e proviene dal convento di Cremona.
L'artista raffigura un episodio accaduto nel 1240 secondo quanto è ricordato dalle Fonti Francescane (FF 3201-3202). Le truppe Saracene inviate da Federico II stavano per entrare ad Assisi ed erano già presso il monastero di San Damiano dove Chiara viveva con le consorelle. A questo punto Chiara, già cagionevole di salute, chiese di essere portata dinnanzi ai Saraceni per affrontarli. La sua unica arma: l’Eucarestia custodita in una capsella in argento e avorio; alla sua vista i Saraceni scapparono e Assisi fu salvata.A sostegno di questa azione coraggiosa, Chiara aveva avuto una visione di san Francesco (scomparso nel 1226).
La composizione è spoglia e severa. L’altare, nella sua pura geometria, è l’unica forma prospettica. La santa è inginocchiata sui gradini che portano alla mensa e l’immagine dell’amato Francesco prende forma in una nube leggera posata sul tessuto dell’altare (con la mano quasi tocca il velo di Chiara). È un dialogo soprannaturale e al contempo intimo negli affetti.
Modulate con trepida sensibilità, le tonalità brune, grigie, ambrate, evocano il silenzio claustrale e rendono tangibile la concentrazione spirituale dell’apparizione. Nella tela brillano le luminescenze del velo della santa e della tovaglia sull’altare. Splendono anche gli eleganti effetti cromatici, nel prezioso oggetto di oreficeria, che la tradizione lo ha fatto diventare un ostensorio. È impossibile che Chiara lo avesse utilizzato per scacciare i saraceni dato che l’oggetto è nato nel XV secolo.
Con quest’opera, Giuseppe Nuvolone conferma gli stretti rapporti di fiducia tra la famiglia Nuvolone e i frati Cappuccini, rapporti già ampiamente intessuti dal fratello maggiore Carlo Francesco.
La stampa con la veduta del Convento di Porta Orientale è molto importante per il Museo dei Cappuccini per la ricostruzione almeno attraverso l’immagine di un luogo perduto. I frati Cappuccini giunsero in Lombardia nel 1535 e a Milano il primo insediamento fu presso la Cappella Ducale di San Giovanni alla Vedra (o Vipera). Nel 1542 si trasferirono presso il convento di San Vittore all’Olmo in Porta Vercellina e poco fuori dalle mura cittadine.
Circa cinquanta anni dopo, grazie al contributo dei "Reggitori" del governo cittadino, i frati Cappuccini acquistarono un terreno sul quale, nel 1592, iniziarono a costruire un altro convento e la chiesa che verranno dedicati alla Concezione di Maria Vergine Immacolata a partire dal 1599. Il nuovo convento diventò presto il principale della provincia milanese.
La chiesa, secondo la descrizione che Carlo Torre fa nel 1714 in Ritratto di Milano, aveva sulla facciata un dipinto del Cerano. Diversamente dalle tradizionali indicazioni cappuccine, la chiesa era grande e spaziosa, aveva però un’unica navata e due cappella per lato, protette che alti cancelli lignei di manifattura cappuccina. Un tramezzo ligneo, anch'esso di tradizione cappuccina, separava l'altare maggiore dal coro dei frati. Le pale degli altari erano tutte opera dei maggiori artisti operanti a Milano dell’epoca: Camillo Procaccini, Carlo Francesco Nuvolone e ancora il Cerano.
Le ondate delle soppressioni indirizzate agli ordini religiosi colpirono anche i frati Cappuccini e il complesso venne definitivamente soppresso e abbattuto nel 1810.
L'immagine della facciata della chiesa dell'Immacolata Concezione, pochi mesi prima della soppressione, appare esageratamente imponente. La stampa infatti riproduce la facciata effimera di cui era stata dotata la chiesa in occasione dei tre giorni di festeggiamenti per la beatificazione di fra Crispino da Viterbo. Tuttavia questa litografia è pressoché l'unico documento iconografico della facciata della chiesa dell’Immacolata concezione (rimane altro rilievo della facciata seicentesca, di discussa attendibilità).
La Madonna del Lazzaretto
è uno de capolavori del Museo dei Cappuccini: in sé presenta elementi evidenti di arte e fede.
Prodotta dalla bottega fiorentina di Antonio Rossellino, si ignorano
le circostanze del suo arrivo a Milano, risulta però che fu collocata sotto uno
dei portici del lazzaretto per essere venerata dai malati. Pare infatti che si
trovasse già nel lazzaretto quando cessò l’uso di questo luogo per l’isolamento
dei malati contagiosi. A quest’epoca (dopo il
1633) venne donata ai frati Cappuccini del Convento di Porta Orientale come
ringraziamento per l’importante servizio di assistenza svolto all’interno del
lazzaretto.
Successivamente, con la soppressione e poi l’abbattimento del
convento di Porta Orientale (1810), la formella fu acquisita da privati
cittadini che ne furono custodi per circa un secolo. È quindi negli anni Venti del 1900 che i frati Cappuccini del
nuovo convento di viale Piave ricevettero in dono questa Madonna con il Bambino
che collocarono nel coro della chiesa. In seguito ad alcuni adeguamenti dell’area del coro e del
presbiterio, la formella con la Madonna del lazzaretto (così chiamata per la
sua antica provenienza) venne trasferita prima
in convento e poi nel deposito del Museo dei Cappuccini.
Nel 2007 è stata sottoposto a un delicato intervento di restauro
che ne ha portato alla luce l’originaria pellicola pittorica con la decorazione
ricca d’oro in molte sue parti. Il Bambino è vestito con
una tunica verde e tra le mani paffute stringe maldestramente un cardellino che
rimanda alla Passione, così come rimandano alla passione i monili in corallo
rosso adornano il collo e il polso sinistro.
La Madonna indossa un
abito rosso finemente decorato e ciò che colpisce è lo guardo sofferente e al
contempo quasi distaccato, con cui guarda il figlio che tiene accanto a sé.
Conosce il destino che vivrà.
Altre opere esposte
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